Archive for Luglio, 2018

(Non) è il manicomio

«Una volta mi sono svegliata. Ospedale di Genova. Intorno al mio letto c’erano tre stronze di infermiere. Io ero legata come un salame, legata mani e piedi al letto, con un mal di testa atroce. Rincoglionita dai farmaci. Una dice all’altra: Oh, questa qui sembra quasi normale. L’altra dice a quella Qui non arriva nessuno di normale. La terza ride. Io apro gli occhi. La guardo. E le sputo in faccia».

Alice Banfi vive in una casa di fronte al mare e alla spiaggia di sassi di Camogli. Oggi le nuvole arrivano dall’orizzonte, superano i tetti e le vie strette del borgo e si addossano contro il promontorio che incornicia il golfo, premono contro la “Chiesa Millenaria” – la chiamano così – che sorge su quelle colline, premono anche contro l’Aurelia e i suoi viadotti. Nuvole si accumulano a nuvole, si compattano e scaricano pioggia, sempre più fitta. Io e Alice ci ripariamo sotto l’ombrellone di un bar. Ordiniamo un caffè. È lunedì, in spiaggia non c’è nessuno.

Lei ha 40 anni, è nata tre mesi dopo l’entrata in vigore della legge 13 maggio 1978, n. 180 – conosciuta con il nome dello psichiatra Franco Basaglia – che decretò la chiusura dei manicomi.

«Ah pensavo fossi molto più vecchia. È la prima cosa che di solito mi dicono quelli che hanno letto i miei libri» mi dice Alice dopo avermi raccontato l’episodio delle tre infermiere «ma che non mi hanno mai vista di persona. Dev’essere perché quello che racconto, quello che ho vissuto, uno se lo immagina impossibile, se lo immagina ambientato settanta, cinquant’anni fa, in un tempo lontano, nei manicomi, e non venti, dieci anni fa nei reparti psichiatrici. Non oggi».

«Quello che ho vissuto, uno se lo immagina impossibile, se lo immagina ambientato settanta, cinquant’anni fa, in un tempo lontano, nei manicomi, e non venti, dieci anni fa nei reparti psichiatrici»

I manicomi in Italia non esistono più.

Oggi ci sono trecentoventi reparti psichiatrici, quelli in cui vengono ricoverate persone nelle fasi più acute di sofferenze psichica e mentale: si chiamano SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura). Su trecentoventi SPDC, circa trecento hanno le porte delle camere serrate dall’esterno, come nei vecchi manicomi e nelle carceri. Su trecentoventi SPDC, circa duecentonovanta adottano la contenzione in maniera dichiarata, protocollare, sistematica; contenzione significa: legare i matti al letto, mani e piedi, con fascette di cuoio. Quando non basta si stringe con un po’ di giri di scotch. Quando non basta ancora c’è lo “spallaccio”, un lenzuolo che blocca anche le spalle.

Il 22 giugno 2006 Giuseppe Casu muore dopo essere rimasto sette giorni legato a un letto del reparto psichiatrico di Cagliari. Francesco Mastrogiovanni, il 4 agosto del 2009, muore dopo essere stato legato ottantasette ore al letto del reparto psichiatrico di Vallo della Lucania, Salerno: la sua agonia è stata integralmente ripresa dalle telecamere interne del reparto. Mastrogiovanni era maestro alle scuole elementari, tutti lo conoscevano come Franco; prima di legarlo era stato pescato in mare mentre nuotava nudo e cantava canzoni anarchiche. Ambulanza. Carabinieri. Reparto psichiatrico. Durante l’agonia ha urlato, si è provocato dei tagli nel tentativo di liberarsi dai lacci di cuoio, ha chiesto da bere, ha pianto di disperazione, è stato sedato, alla fine ha rantolato per la mancanza d’aria, anche l’ultimo respiro è stato catturato dalle telecamere interne del reparto di Vallo della Lucania, Salerno, 2009.

Su trecentoventi SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura) circa duecentonovanta adottano la contenzione in maniera dichiarata, protocollare, sistematica; contenzione significa: legare i matti al letto, mani e piedi, con fascette di cuoio.

«Mio nonno, Arialdo Banfi, ha fatto la Resistenza, e dopo la guerra è diventato un senatore del Partito Socialista» riprende Alice. «Suo fratello Gian Luigi è stato deportato nel campo di concentramento di Mauthausen-Gusen, era contro il regime fascista, ed è morto lì. Mio padre invece ha fatto il ’68: trasformò la casa del nonno, in via Verrocchio a Milano, in una comune. Io sono cresciuta lì, la porta che dava sulla strada era di metallo, una porta scorrevole che non si poteva chiudere. Un pianoforte, un’accozzaglia di mobili recuperati, e poi c’erano moltissimi bambini, le facce non erano mai le stesse. Credo che fossi felice.

Mio padre era la pecora nera della famiglia, una famiglia di avvocati e lui che decide di fare l’operaio, l’operaio per scelta come si diceva. Era una persona libera, meravigliosa; lo è ancora. Margherite e crisantemi erano i fiori che mi portava in psichiatria; margherite e crisantemi, sempre, margherite e crisantemi: sono quelli che si trovano più facilmente in offerta al supermercato, quelli che si regalano ai morti, ma lui mi diceva – giustamente – sono così belli, perché non regalarli ai vivi! Le annusavo, poi le dipingevo, ho ancora un quadro con i fiori di mio padre, di là, esposto nella galleria».

Ci alziamo, paghiamo, ci viene incontro Ada, la figlia di Alice, incurante della pioggia anche se ha un disegno in mano. La galleria di Alice si chiama “Artemisia”, è una stanza chiusa da una vetrata affacciata sul mare. Il disegno di Ada è fitto, ci sono simboli ovunque negli angoli, tutti i personaggi ritratti hanno i superpoteri – ce n’è uno con la super-velocità, ci spiega, uno con il super-orecchio, uno con le super-braccia, uno che può diventare invisibile, c’è anche Alice, la mamma – sono tutti incastrati in una sorta di castello, stregato o incantato, e c’è anche lei, Ada, il suo potere è il terzo occhio. Oggi pomeriggio deve andare dal dentista, è appena tornata da scuola, fa la quinta elementare. Alice prende il disegno e se lo infila sotto la camicia, che se no si bagna. Ada cammina qualche passo avanti a noi.

La notte scorsa, prima di partire, mi sono letto tutto in una volta il primo romanzo di Alice, Tanto scappo lo stesso. Il sottotitolo è Romanzo di una matta, c’è una rapida biografia all’interno: “Alice Banfi, pittrice, lavora ed espone nella sua galleria sul lungomare di Camogli, in provincia di Genova. Ha attraversato follia e riscatto riuscendo a parlarne”. C’è una dedica alla madre.

È stato scritto di getto, in pochi giorni, in uno dei reparti psichiatrici che Alice ha abitato, non pensava che qualcuno l’avrebbe letto. L’ha letto sua madre, l’ha stampato e l’ha mandato a Peppe Dell’Acqua, psichiatra di Trieste, collaboratore di Basaglia negli anni della costruzione di Marco Cavallo, l’enorme cavallo azzurro di legno e cartapesta alto quattro metri e con le ruote, portato fuori dal manicomio e fatto sfilare in processione per le vie della città, tirato dai matti; era il 1973.

Dell’Acqua, nel 2006, spedì il manoscritto a Marcello Baraghini, di Stampa Alternativa, che un giorno si presentò ad Alice: «Piacere, sono il tuo editore». Lei pretese solo di mantenere il testo giustificato a sinistra, in modo da non trovarsi parole spezzate al bordo destro della pagina.

Cito dalle prime pagine del testo.

Era per solitudine, forse, per sentirmi viva, per la paura di sparire, per avere attenzioni, non ho ancora capito bene perché, che di notte a circa cinque anni ho cominciato a darmi pugni sul naso, fino a farlo sanguinare, e poi lo lasciavo sanguinare tutta la notte, fino a inzuppare il cuscino e ad addormentarmi. Mia madre credeva avessi i capillari del naso fragili.
[…]
Ho smesso di prendermi a cazzotti il naso verso i 12 anni per passare a procurarmi ferite, bruciature di sigarette e tagli sulle braccia. Non si trattava ancora di ferite gravi e le nascondevo con facilità.
[…]
L’ultimo anno di liceo fu segnato dall’aborto. Lo feci a inizio anno. Mi si prosciugarono le lacrime, io che mi commuovevo anche per un film! Da quel momento non mi uscì più l’ombra di una lacrima. Ero già in analisi da due anni.
[…]
Accaddero altri episodi traumatici, abusi di cui preferisco non parlare e non pensare. Poi una violenza quando ero ancora adolescente, ma il dolore e la vergogna m’impediscono di raccontare.
Finito il liceo, andai a vivere con cinque amici e feci l’esame di ammissione per l’Accademia di Belle Arti. Passai l’esame. La scuola mi piaceva.
[…]
Non volevo limitazioni, non accettavo facilmente consigli, nemmeno dagli amici. La vita mi travolgeva e io travolgevo la vita. A metà del primo anno m’innamorai di Lorenzo, un compagno di corso. Per la prima volta ebbi un rapporto affettivo che superava di gran lunga la settimana. Fu un amore travolgente, e passionale, anche se io non ero in grado di capire il valore della fedeltà, e lui non capiva il valore della libertà, libertà dell’altro di essere se stesso. Verso la fine del nostro amore io ero già anoressica, ma lo nascondevo bene.
[…]
Mangiavo chili di pane e biscotti. Dovevo trovare un rimedio. Sentivo di aver perso il controllo. Vomitare! Vomitare era l’unico rimedio, anzi di più: una magia.
[…]
A un certo punto chiesi aiuto a mia mamma. Avevo smesso da un anno di fare analisi, per mia scelta. Ora volevo una cura per la fame. Andammo da uno psichiatra. Azzeccò alla prima seduta la diagnosi: “Disturbo borderline di personalità”, ma sbagliò la cura, se così vogliamo chiamarla. Mi prescrisse il Prozac: dovevo aumentare fino a prenderne la dose massima di 3 compresse da 30 mg al giorno. Nel giro di un mese ero fuori come un balcone. Tremavo, ero aggressiva più del solito, su di giri e mi sentivo drogata, allucinata. Continuavo a essere bulimica e a bere spropositatamente.

La serratura della galleria Artemisia è un po’ scassata, va forzata per permettere alla chiave di fare il primo giro. Entriamo, io, Alice e Ada. Dentro, la stanza scoppia di quadri, di oggetti in terracotta, di vernici in piccoli barattoli, ciondoli, orecchini, fogli di appunti, scritte sui quadri, foto di panorami di Camogli, una sedia-trono-sbilenco, un’altra sedia per gli ospiti, foto di Alice ventenne, schizzi, i suoi quadernoni con ritagli di giornali, sue foto da bambina, foto con il padre, con la madre, con gli amici, foto in reparto, una foto delle fascette di cuoio per le mani e per i piedi attaccate al suo letto in psichiatria, date e luoghi sui disegni e sulle foto – Grossoni III, Niguarda, Milano. Ville Turro, Milano. Villa Cristina, Nebbiuno (NO), Ospedale Santa Croce, Moncalieri (TO) – disegni di Ada, forbici, spille, pinzatrici, scotch, posacenere pieno, registratore di cassa, alcuni sassi della spiaggia, puntine, i tatuaggi si attorcigliano su per tutte le braccia di Alice, ci sono i segni dei tagli cicatrizzati sui suoi avambracci, e i tatuaggi raggiungono il petto, spuntano dalla scollatura della camicia, spire che paiono di serpente o di drago.

Il sorriso di Alice è disarmante “questa giovane donna che non riesce a trovare una sua misura” scrive Maria Grazia Giannichedda, anche lei collaboratrice di Basaglia, nell’introduzione al romanzo di Alice “sempre troppo grande o troppo piccola proprio come la bambina del Paese delle Meraviglie, di cui porta il nome”, lo sguardo di Ada, la figlia, è consapevole, saggio, e anche il suo atteggiamento; prende un sasso dalla scrivania, uno di quelli piatti, grande quanto la sua mano. Lo posa a terra. Prende un pennello, un barattolo di tempera rossa e uno di tempera gialla. Si siede a terra a una certa distanza da noi e si piega a disegnare sul sasso, imbronciata, forse solo concentrata.

Il primo ricovero di Alice è stato nel 1999, a Milano, Ville Turro.

«È stato un ricovero volontario, ho iniziato con il day hospital. Il disturbo alimentare mi teneva in ostaggio. Stavo male, molto male. Mi sentivo a un punto di non ritorno. A quel punto vuoi solo essere rinchiusa da qualche parte. E lasciare fare agli altri. Mangiavo 14 ore al giorno, mangia, mangia, mangia, mangia, poi vomita, vomita, vomita. Fermatemi vi prego. Vi prego ricoveratemi. Arrivo a Ville Turro, nello studio dello psichiatra. Mi dice che c’è una lista d’attesa. Lista d’attesa un cazzo! Gli do una testata sul naso. Oggi mi spiace ma… Lui chiama il 118 e mi portano al Grossoni, il reparto psichiatrico del Niguarda. Scendo dall’ambulanza, metto piede nei corridoi, sezione III, mi guardo in giro: Cazzo, e questo che posto di merda è? Ok vado a casa.

Arriva la caporeparto: Hai fatto la stronza? E adesso sei obbligata a stare qui. Disperazione. Disperazione e un senso di abbandono totale. La mia carriera nei reparti e nelle comunità psichiatriche è iniziata lì. Ed è durata dieci anni».

La pioggia fuori si fa più insistente, trafigge di un’infinità di aghi sottili la superficie del mare, scurisce la scogliera su cui sorge il Castello della Dragonara, ci zittisce per un attimo.

«Il luogo piccolo mi ha fatto bene, questo riconoscere le persone, essere riconosciuti. Parlo del paese, di Camogli. A volte davo in escandescenze. Ma sapevano chi ero. Non chiamavano i carabinieri né l’ambulanza. Qui ho iniziato a capire il senso di alcune regole della società: non puoi mandare a fare in culo tutti, in un posto così piccolo… Dopo un po’ finiscono gli abitanti».

Ada ci guarda, accenna un sorriso di partecipazione, poi riprende seria il suo lavoro, seduta a terra sul suo vestitino. Non credo che senta il nostro dialogo. Non lo so. Però è come se mi aspettassi che da un momento all’altro ci possa interrompere con una qualche frase definitiva sulla storia di sua madre o su questo momento. In qualche modo, più semplicemente, la tengo d’occhio mentre ascolto Alice – che non abbassa il tono di voce quando racconta i momenti più drammatici della sua storia, i momenti meno adatti a una bambina – mentre le faccio domande forzandomi a non perdermi in giri di parole o di pensiero. La vita precedente di Alice qui è dappertutto. Nei quadri. Nelle didascalie delle foto. La sua camicia non ha maniche e i segni delle cicatrici rigonfie per via dei vecchi tagli non sono nascosti. Ci sono i suoi libri, dichiaratamente autobiografici. Alice non nasconde nulla, è una testimone di una storia che non è solo la sua, che in pochissimi raccontano, quasi nessuno dall’interno. Chissà a che età Ada li leggerà.

«Il mio interiore era uno schifo, un casino, frantumi, ma c’era tutta questo fuori, il mare, le rocce».

«Sono arrivata in paese quasi dieci anni fa. Ero a un punto di stallo. Ogni cosa che facevo non faceva altro che farmi indietreggiare sulla strada della guarigione. Mi davano per spacciata. L’unica prospettiva era l’ennesima sessione in un reparto ad alta protezione. Ho chiesto a mia madre se potevamo venire qui, al mare, prima di rientrare dentro, lei qui aveva una casa. Il mio interiore era uno schifo, un casino, frantumi, ma c’era tutta questo fuori, il mare, le rocce; quando c’è il sole, qui, c’è il sole davvero, quando piove è diverso da quando piove in città. Ti svegli ogni mattina e hai tutto questo davanti. Ho detto: Mamma, possiamo stare qui?».

Chiedo ad Alice chi è Sara, il nome che ha tatuato sulle nocche, una lettera per ogni falange.

«Dormivamo insieme al Parco Sempione. Il padre – un testimone di Geova – la massacrava di botte; a 15 anni era tossicodipendente, eroina. Con la vita che facevamo, in quell’ambiente, morivamo come mosche; nel mio gruppo eravamo in cinque. Prima è morta L., a 17 anni. Poi F. a 23. Quando è morto lui ci siamo fatte il tatuaggio. Io “SARA”, lei “ALICE” stringendo la L e la I sulla stessa falange. Il tatuatore era il quinto del gruppo. Un amico fraterno. Era quello stabile del gruppo, un’ancora di salvezza. Da qualche anno è uscito dai binari, ha avuto un periodo di psicosi totale. Quando pesavo 28 chili, meno di mia figlia adesso, era quello che veniva al mare con me, a Otranto, per far stare tranquilla mia madre, Signora, non si preoccupi, vado io con Alicegliela porto a casa! Mi ha sostenuto per anni. Poi la situazione si è ribaltata. Ma io non sono potuta stare vicina a lui come lui era stato vicino a me: c’era Ada, che era appena nata. Credo che questa cosa non gli sia mai andata giù. Ma la vita è così».

Rompo il silenzio – che è sceso ripido dopo il così – con una domanda, le chiedo come ha fatto a resistere. Come ha fatto a resistere a tutti quegli anni di corridoi di reparti psichiatrici e comunità, farmaci, camere tutte uguali, autolesionismo, psicosi, assenza di ogni via d’uscita.

«La prima sensazione che provi entrando in un reparto psichiatrico è la paura, paura disperata. Ti guardi intorno – so che sembra assurdo – e ti dici: Cazzo, qui sono tutti matti. C’è gente di tutti i tipi, dalla vecchietta in demenza senile rimasta senza famiglia, alle prostitute finite dentro per una rissa o una crisi isterica. Io avevo la capacità di agganciarmi, di allearmi col più forte, per difendermi. È come in carcere, credo. È una cosa che ho imparato negli anni sulla strada, a Milano, dopo che le ho prese per la prima volta, a 16 anni, una scarica di botte. Lei era una donna, una bestia. Motivi di corna. Qual è stato il mio errore? Fermarmi. Se tu ti fermi perché hai paura di fare male all’altro, l’altro ti ammazza. Non che se dici, Ahi, ahia, basta, ti prego l’altro si ferma. Col cazzo. Sulla strada funziona così; nell’ambiente dei punkabbestia era così. E io ero sempre troppo, o troppo poco, anche per i punkabbestia. Quella tizia mi ha aperto. Il giorno dopo avevo una fronte che era un pallone, un trauma cranico, un occhio nero, completamente chiuso. Mi ricordo ancora la faccia di mio padre quando sono tornata. Ero finita per terra e quella mi ha spaccato di calci in faccia senza pietà. Ci ho messo due anni a restituirgliele, restituirle tutte le botte, tutte in una sera».

C’è un signore alto con un panama in testa fuori dalla galleria. Ha un paio di bermuda beige. Dev’essere del nord Europa, guarda la vetrina attraverso i suoi occhiali. Ada lo guarda attraverso la vetrina. Alice continua:

«Ti rendi conto, lì dentro, che puoi diventare un’aguzzina. Che esiste in ognuno di noi quella parte. C’è una citazione di Primo Levi, che sento mia, senza esagerare, perché lo so che non c’è paragone tra le nostre esperienze: lui scrisse che se tu sei un po’ aguzzino ce la fai a sopravvivere. Qualcosa del genere. E invece quello buono, quello buono fino in fondo, soccombe e lo schiacciano come una polpetta. Io so cosa intende».

L’uomo col cappello pare voler entrare ma è ancora indeciso. «Hai resistito. E poi come ti sei salvata?» incalzo io. «Ho trovato sulla strada alcuni pezzi fondamentali. Dipingere. Trasferirmi qui sul mare. Scrivere il libro e raccontare quello che avevo visto, raccontare i miei compagni, soprattutto. Perché tanti non sono in grado o si sentono in colpa. I familiari di chi è dentro spesso hanno vergogna o paura. Paura di denunciare, perché non sai più a chi credere: a tua figlia matta o agli infermieri, agli psichiatri, che si occupano della sua salute? Non sai più cosa è giusto e cosa ha sbagliato. Quelli nel pieno del delirio, nessuno se li caga. Io una volta una denuncia l’ho fatta, contro un infermiere che mi aveva preso per i capelli e trascinata per terra. Mia madre l’ha ritirata. Così nei reparti fotografavo tutto, le fascette di cuoio bianco pronte e attaccate al letto, soprattutto: per farmi credere. Poi, il pezzo fondamentale, è stata Ada: lei è stata il ritorno al pianeta Terra».

Il signore col panama varca la soglia. Prima dà un’occhiata alle terrecotte. Poi ai disegni. Poi a Ada e al suo sasso che sta prendendo colore, ma lei non si fa distrarre. Non parla, sì dev’essere straniero. Si ferma di fronte a uno dei quadri appesi: I fiori del mio compleanno, Alice Banfi, 2004. Margherite e ortensie in un vaso. Poi passa a quello dopo, Alice me l’aveva descritto prima, c’è un letto, una sedia, un tavolo, un comodino. «In tutte le camere in cui sono stata c’era sempre il letto, la sedia, il tavolo, il comodino, il letto la sedia il tavolo il comodino, e poi questa sono io» e indica una specie di corpo striminzito, filiforme, tracciato in poche pennellate di acquerello «che sogno di danzare in aria, di volare fuori dalla finestra della camera». Il signore col cappello si gira e ci guarda, Alice gli va incontro. Io spengo il registratore e chiudo il mio blocco di appunti.

«In tutte le camere in cui sono stata c’era sempre il letto, la sedia, il tavolo, il comodino, il letto la sedia il tavolo il comodino. E poi questa sono io che sogno di danzare in aria, di volare fuori dalla finestra della camera».

Avevo sempre delle lamette con me, servivano per tagliarmi, le nascondevo ovunque, tra le pagine dei libri, nelle suole delle scarpe, nella batteria della radio.
Quella notte ne usai una per tagliare quattro fascette di cuoio, quelle di Eleonora. Nel buio, mentre segavo quell’orrore, lei mi guardava, alzando un po’ la testa. “Shhhh, non parlare” le dicevo, e lei si metteva il dito in bocca per trattenere ogni parola.
[…]
Gio era veramente speciale. In reparto girava su se stesso e avanti e indietro come una scheggia, nascondeva sotto una chioma di riccioli biondi gli auricolari del walkman. Ogni due giorni lo scaraventava contro il muro e sua madre doveva portargliene uno nuovo. Una volta gli chiesi di aprirmi una porta, si tolse le scarpe e le calze, e la porta antisfondamento del reparto venne giù, con un solo colpo, un solo calcio.
Lo guardai: “Tu non vieni?”.
Si voltò, e ricominciò a girare come una scheggia impazzita. “Bè, grazie”. Io uscii fuori, era sera tardi.
[…]
Conchiglia veniva legato non per qualche ora, per una notte, ma per giorni interi. Mi ricordo le sue urla come fosse oggi. Poi lo sedavano e i lamenti si affievolivano. Una notte andai da lui. Aveva smesso di urlare da un pezzo. Aveva sete, nessuno gli aveva portato da bere. Gli portai un bicchiere d’acqua, lo aiutai a bere, le sue labbra erano secche. Gli dissi: “Fa’ silenzio, non parlare”. Cominciai a mordere le fascette di cuoio e lo scotch che le stringeva ancora di più. Masticai e morsi, in ginocchio, al buio, nel silenzio. Ci misi molto tempo a togliere tutto lo scotch e allentare le fascette. Conchiglia provava a tirare, ma la mano non passava da quel maledetto buco.
“Aspetta, faccio io”, gli dissi sottovoce e iniziai a insalivargli i polsi e il palmo della mano. Con calma tirai, e le mani, scivolando fuori dalle fascette, furono libere. Feci lo stesso per i piedi ma ci misi più tempo e più fatica.
Alla fine lo guardai, nel buio, lui grande e grosso, coi capelli arruffati biondo-platino e i baffoni. Piangeva in silenzio.
[…]
Elena, un angelo, solo diciotto anni, occhi azzurri e capelli biondi lunghi fino a metà schiena. Disturbo di personalità borderline.
“Anche tu?”.
“Sì, piacere, io sono Alice”.
Prima di pronunciare il nome si diceva sempre la diagnosi, la malattia, come se quello fosse il vero nome, il biglietto da visita.

Quando esco dalla galleria l’ammasso di nubi inizia a mostrare qualche crepa, in lontananza, da cui filtra qualche lama di luce, che non è ancora il sereno, ma ci si avvicina. Alice, nei suoi romanzi, scrive dal Duemila, dal Duemiladieci, da luoghi che sono Milano, Torino, Novara, città e provincia; non erano manicomi, non erano gli anni Cinquanta o Sessanta. La pioggia mi bagna il blocco di appunti me lo infilo sotto la maglietta, mentre cammino.

Riparato dalla tettoia della stazione di Camogli chiedo l’amicizia su Facebook ad Alice, così è più facile restare in contatto, ci siamo detti prima. Penso che Ada fra poco sarà dal dentista, che probabilmente – lì sdraiata immobile sul lettino, tra gli attrezzi, il bicchierino, le cannule, il rumore degli aspiratori, le pinze – avrà una paura del diavolo. O forse no. Quando ha finito di dipingere i sassi, mi ha detto sua madre, li fa asciugare e li vende sul lungomare, davanti alla galleria, insieme a una sua amica: si divertono da matte ad agganciare i turisti, durante i weekend di sole.

Nelle informazioni di contatto del profilo Facebook di Alice c’è la citazione di Primo Levi:

I salvati non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.
[“I sommersi e i salvati”]

*Le foto da bambina, da adolescente, nelle comunità e nei reparti psichiatrici sono conservate in un album di ricordi di Alice.

Dal deserto al Friuli – I Tuareg di Pordenone

«Dicono che, per stare bene dove si allunga un’ombra, bisogna prendere il colore della sua oscurità».
Moulla mi rivolge un leggero sorriso. È un signore di mezza età, la testa ricoperta di piccoli ricci bianchi. Parla piano e lentamente, i suoi occhi vagano lungo le pareti blu della stanza, tornando a me quando gli sembra che la frase sia conclusa.

«Fa parte dell’educazione dei tuareg, ovunque vanno, non dire mai siamo stranieri o siamo immigrati. Noi siamo cittadini, perché dappertutto consideriamo quel paese proprietà di nessuno. Dove chi si comporta e lavora bene non ha mai la sensazione di essere straniero. E questa terra è sua perché chi lo sa, magari muore qua». Parla in terza persona, ma capisco che sta riferendo questa eventualità a se stesso. L’affermazione è accolta dai presenti con un silenzio rispettoso e tranquillo.

Siamo nel salotto di Mohammed, che ci ha accolti a casa sua ma rimarrà sempre zitto, ad esclusione di alcuni brevi commenti in tamasheq, la lingua del popolo tuareg – una lingua berbera. Suo figlio Abdouljalil si è addormentato disteso sopra uno dei vecchi divani che arredano la stanza, a metà della conversazione comincia a sospirare quasi impercettibilmente. Mohammed e Moussa gli sfilano con delicatezza la casacchetta del Milan che aveva addosso quando è venuto ad aprirmi.
Da un lato del salotto, le persiane della portafinestra pressoché del tutto abbassate scuriscono ulteriormente la tinta blu dei muri e gettano un’ombra a righe lungo due grossi tappeti, sui quali è appoggiato un bassissimo tavolino nero. È un arredamento che mescola insieme un gusto nordafricano e un senso di mobili trovati, più che scelti.

«Pordenone capitale tuareg» mi dice all’improvviso

In questa abitazione in affitto al piano terra di un reticolo di strade appena fuori dal centro, oggi si sono resi disponibili a incontrarmi alcuni membri della comunità tuareg di Pordenone. L’entrata di ognuno è accolta da reciproci As-Salaam-Alaikum a bassa voce e da una stretta di mano a me.

Mi accolgono in una villetta a schiera sobria ma dagli interni vivaci. Su una parete dell’ingresso, tinteggiato di un arancione gentile, i disegni di Abdouljalil sono stati appesi con adesivi e un piccolo chiodino. Il pavimento è costellato delle scarpe che tutti si tolgono appena entrano, quelle di Abdouljalil giacciono abbandonate l’una distante dall’altra. C’è un certo via vai: la moglie di Mohammed, Ghaicha, sta scaldando qualcosa ai fornelli per la merenda del figlio, poi si ritirerà in camera e non la vedrò più, salvo per lo scatto veloce di una fotografia. Ne prende il posto Moussa, che inizia a preparare un tè: è un ragazzo giovane, ne osservo di spalle la veste azzurro chiaro e il tagelmust indaco arrotolato intorno alla testa, mentre travasa con solennità l’acqua da una piccola teiera ad un’altra, centrandone sempre l’apertura. «Pordenone capitale Tuareg» mi dice all’improvviso. Fa una breve risata e riprende a occuparsi del tè.

Con i suoi cinquanta componenti, un terzo di tutti quelli presenti sul suolo nazionale, la comunità tuareg di Pordenone è anche la più grande in Italia. Numeri importanti in senso assoluto, che rivelano una minor tangibilità dando un’occhiata alle classifiche ISTAT della provincia di Pordenone aggiornate al 2017, dove dei paesi di origine dei tuareg – soprattutto il Niger per la comunità pordenonese, insieme a Mali, Algeria, Burkina Faso e Libia – solo due rientrano nelle prime dieci posizioni, ma con un grosso scarto rispetto alle ben più ampie comunità ghanese e marocchina.

«In Italia trovi tuareg anche a Milano, Roma, Napoli e nelle province di Pisa e Bologna, durante le ferie a volte facciamo un gruppo e andiamo a trovarli. Ma sono nuclei piccoli, famiglie. Qui a Pordenone abbiamo la comunità più grande, siamo proprio cresciuti negli anni. Ma non è che tutti quelli che vengono dai paesi che ti dicevamo siano tuareg», mi mette in guardia Moulla, «alcuni dicono di esserlo e non è vero. Ci è capitato persino che qualcuno ci chiedesse di conoscerci per sapere se siamo tuareg veri». Il ricordo suscita una leggera risata generale.

Cerco di capire meglio che cosa contraddistingua un tuareg: «Per noi essere tuareg non vuol dire mettersi il chèche – un altro modo di indicare il tagelmoust – o parlare la lingua, il tamasheq. È un’identità culturale che portiamo dentro di noi. C’è una parola: ashek».

«È un’identità culturale che portiamo dentro di noi. C’è una parola: ashek».

Per darmene traduzione si apre una breve disquisizione filologica. Mohammed continua a intervenire in tamasheq, ma la cadenza dei suoi interventi mi fa capire che sta seguendo tutto ciò che ci diciamo. Alla fine, i presenti si trovano d’accordo su pudore.
«È una parola chiave, un termine di identificazione che distingue i tuareg da tutte le altre popolazioni. L’essere pulito. Come una costituzione che non puoi violare, non perché ci siano leggi a stabilirlo, ma perché la vergogna di creare un danno alla comunità corrode molto più di qualsiasi norma».

Per spiegare il concetto, Moulla asseconda la mia richiesta di narrarci una storia tuareg, la fiaba di un ladro che si redime dopo scoperto di aver rubato anche a chi non possedeva niente. Lo ascoltano tutti con grande attenzione, come fosse la prima volta che la sentono.

Accompagnato da un tintinnio di vetro, Moussa entra con un vassoio argentato pieno di bicchierini. Impugna una piccola teiera scura e riprende il cerimoniale del tè. Alza la teiera oltre il livello della testa, versando la bevanda con grande precisione. È evidente che gli dà una certa soddisfazione. Me ne versa uno, sa di foglie e zucchero. Mentre lo distribuisce, si accoda al discorso e specifica che il suo villaggio – Abardek, centodieci chilometri da Agadez in Niger – ha millecinquecento abitanti e neanche un poliziotto: «I capi religiosi e i capi tribù gestiscono e dirimono le controversie, ma ashek ti dà una spinta molto grande nel superare le difficoltà. Abbracciando il mondo, che ti viene incontro ovunque tu sia».

Dopo un primo periodo a Brescia, a partire da inizio anni Novanta i Tuareg hanno iniziato a spostarsi verso il capoluogo friulano. Uno dei primi è stato Haddo, presidente uscente dell’associazione Mondo Tuareg, seduto controluce. Entrando si è tolto il cappello. Quando scende il silenzio, riprende sempre a guardarmi e mi invita a porre domande precise, ascolta tutto con grande attenzione: «Brescia è una città con tante industrie, ma l’affitto costa caro. Difficile. Abbiamo saputo che anche Pordenone offriva delle possibilità lavorative, ma che le case erano più accessibili. È stato in primo luogo per questo che l’abbiamo scelta. E gradualmente si è aggiunto uno, poi un altro, poi un altro ancora. Ci siamo trovati bene, perché la città è stata ospitale con noi».

Chiedo ai miei interlocutori quale sia il loro primo ricordo di Pordenone. Per Moulla, neopresidente dell’associazione, è la frase di un’amica di Udine: «L’inizio di vita in un nuovo posto è sempre difficile. Non sapevamo come farci conoscere, come parlare della nostra comunità. Ci disse che, una volta conosciute le persone, qui avremmo avuto dei buoni amici. E noi pian piano ci abbiamo provato. Abbiamo creato l’associazione perché esserci inseriti nella routine lavorativa non ci bastava. Oggi viviamo un’integrazione non più raccontata, ma di reale convivenza”.

Dai racconti dei presenti emerge una quotidianità compenetrata alla vita pordenonese, vissuta con la discrezione di un’abitudine consolidata e raccontata con la linearità di un processo ormai ben avviato: «Molti di noi hanno ottenuto la cittadinanza. I nostri figli giocano insieme a bambini di Pordenone, noi stessi abbiamo molti amici qui e ci facciamo visita l’un l’altro, oppure li invitiamo quando ci incontriamo fra tuareg. Frequentiamo il centro, il sabato ci piace andare al mercato. Abbiamo aperto le case ai nostri vicini e loro le hanno aperte a noi. Siamo in una convivenza ben riuscita. Non tutti sanno che esiste la nostra comunità, ma siamo sempre più parte di questa città».

Ogni tanto qualche cellulare inizia a vibrare. Mi spiegano che sono in corso gli ultimi preparativi per una festa che si terrà di lì a pochi giorni, ospitata in un oratorio: una serata che si concluderà con una lunga passeggiata fino alla piana dei Magredi a Cordenons, una distesa di sassi dove poter preparare il fuoco. Un fiume in secca come reminiscenza più prossima a un ambiente desertico.

La maggioranza dei tuareg residenti a Pordenone lavora in fabbrica, me lo dicono rispettosamente ma non sembrano molto interessati ad approfondire. Nei loro paesi di origine sono abitanti nomadi del più inospitale degli ambienti terrestri, carovanieri attraverso i deserti: «I primi che hanno saputo della colonizzazione in Africa, gli ultimi a non ottenere l’indipendenza» precisa Haddo.
«Il popolo tuareg è nato già così: un paese per noi è stato previsto, ma la storia è andata diversamente. Siamo finiti sotto un’altra colonizzazione, araba a nord e del governo centrale a sud».

Il riferimento di Haddo, che tutti i presenti colgono e condividono con gravità, ripercorre buona parte della storia della repressione dei tuareg e dell’Africa in generale, estendendosi tra l’espansione islamica proveniente da nord a partire dal settimo secolo e la divisione politica degli stati tuareg imposta a inizio Novecento dalla colonizzazione francese, che nel 1909 aprì una mappa e tracciò i confini di Mali, Algeria e Niger. «È una divisione che ha reso impossibile pensare a qualsiasi progetto importante per il nostro popolo. Non avendo un paese in senso proprio, lo diventa ogni luogo in cui andiamo».

E vent’anni di burocrazia italiana e contratti di affitto non hanno cambiato questa spinta al movimento: «Viviamo la vita nomade proprio dentro di noi. Anche qui a Pordenone, siamo persone che vogliono sempre cambiare casa e quartiere, ci trasferiamo spesso. Qui non si può piantare la tenda, però non siamo ancora legati ai quattro muri». Haddo si ferma un istante, sceglie con cura le parole. «La cosa che ci dispiace tanto qui è la mancanza del tempo. Tutti corrono dietro all’orologio, questo è l’aspetto di maggiore sofferenza per noi. Chi è rimasto qui avuto proprio un gran coraggio per superare questa prova».

«Anche qui a Pordenone, siamo persone che vogliono sempre cambiare casa e quartiere, ci trasferiamo spesso. Qui non si può piantare la tenda, però non siamo ancora legati ai quattro muri».

Quella contro la frammentazione del tempo non sembra l’unica sfida che una minoranza etnica si può trovare a vivere nel 2018: lo dico, ma l’osservazione cade nel silenzio. Dopo qualche secondo, Moulla smentisce di aver mai vissuto sulla propria pelle «gli episodi che si vedono in televisione». Mentre lo dice sembra affondarsi ancora di più nella poltrona, quasi a prendere le distanze dallo schermo appeso davanti a sé.

C’è però anche un dato, ed è che i tuareg sono un popolo libero ma attento, forgiato dalla conoscenza degli spazi del deserto e consapevole di ciò che scatenano le risorse nascoste sotto le distese di sabbia. A dirlo sono loro stessi attraverso la loro poesia, che da fine Ottocento ha smesso di dedicarsi alla celebrazione della donna per raccontare una terra ambita e saccheggiata.

«Le poesie antiche cantano la bellezza della donna, degli spazi. È ciò di cui scrivi quando le cose vanno bene. Quando le cose cambiano, le poesie cambiano». Moulla mi getta un’occhiata. «Oggi, la poesia è un incoraggiamento per resistere, la voce dei movimenti di ribellione. Alcuni vorrebbero sgomberare il popolo tuareg: sotto terra, lì, c’è la ricchezza».
Petrolio, rame, oro e diamanti uniti all’improvviso in un solo articolo determinativo.
«È una poesia che si accompagna alla musica. Come un’ambasciatrice, una lancia per far conoscere agli altri questo problema. Spesso i combattenti ribelli registrano queste composizioni su nastro: in Niger, se il governo centrale ti trova con una di queste cassette o con un kalashnikov è la stessa cosa».

Ci diamo appuntamento fra tre giorni, per assistere ai preparativi della festa e incontrare chi oggi non ha potuto raggiungerci. Moussa si offre di riportarmi in stazione in macchina. Appena la accende parte il disco lasciato nello stereo dell’auto: Bombino, che tutti loro conoscono benissimo insieme ai Tinariwen. Colgo un certo orgoglio per il successo italiano ed europeo delle due formazioni tuareg. Quando sto per uscire, Haddo mi saluta con un’espressione pensosa e coglie l’occasione per chiudere un discorso lasciato in sospeso. Colgo che vuole anche farmi capire che, nonostante le reazioni composte, la mia domanda di poco prima è stata capita benissimo: «Prima ci chiedevi di Salvini e non ti abbiamo risposto. È vero che è un momento in cui c’è chi soffia sul fuoco. Ma i fuochi, prima o poi, si spengono».

A casa, mi imbatto in un tutorial di YouTube più che basilare di frasi quotidiane in tamasheq. A parlare è Mohamed Hamza, il volto incorniciato da un turbante bianco, visibile dagli occhi al principio di due grossi baffi: «Nella lingua tuareg non si esprimono i sentimenti. Sarebbe un segno di debolezza, perché il valore del comportamento è valutato non in base a ciò che uno dice, ma in base a ciò che fa. È strano per me quando mi chiedono di tradurre “Buon appetito”, perché noi non lo diciamo. Come tuareg agiamo, più che parlare».

Il sabato seguente torno a Pordenone. È una mattina soleggiata e tranquilla, per strada non c’è nessuno. Su più o meno tutte le pareti esterne degli edifici che compongono l’oratorio San Lorenzo, un anonimo se l’è presa con Pasolini, incalzandolo a colpi di insulti e bomboletta bianca: Pasolini, pensate di insegnarci qualcosa?!.

Le cucine del comprensorio sono invase da un fortissimo odore di carne e cavolo cappuccio, che stanno cuocendo in quantità industriali dentro a pentole gigantesche su cui qualcuno ha scritto a pennarello “Mondo Tuareg”. All’opera, fra svolazzi di vesti colorate e infradito, sei donne, che spostano i pentoloni da un fuoco all’altro chiacchierando tra loro in tamasheq. Al mio arrivo si fanno più riservate. Sono vestite a festa. Vedendomi, una di loro mi coinvolge iniziando a dire in italiano il nome di qualche ingrediente. Mi indica con risposte secche i piatti che stanno preparando, cous cous e fanké, poi si allontana. Appena fuori intravedo Ghaicha, intenta nel taglio di una cassetta di peperoni. Insieme ai tuareg, gli unici presenti a quest’ora sono i volontari dell’Associazione Ritmi e Danze del Mondo di Giavera del Montello, presenti per offrire supporto logistico e incaricati di preparare i piatti della tradizione friulana che saranno serviti questa sera accanto ai corrispondenti africani. Notata la macchina, mi invitano ad aspettare che tutti abbiano guanti, cuffiette e grembiuli, prima di scattare.

In Italia, le donne tuareg hanno mantenuto la funzione esercitata con fierezza nel deserto, la custodia della tenda declinata nella sua variante sedentaria. A raccontarmelo è comunque Moussa, perché tutte le cuoche, oltre a essere concentrate sulla preparazione dei piatti, sembrano meno propense a parlare in italiano. «Noi non abbiamo scuole, quello che scriviamo è sulla sabbia e il giorno dopo già non c’è più. Siamo via per mesi e quando torniamo stiamo già pensando a ripartire. La donna è fondamentale, è lei che ha il controllo della tenda, che gestisce tutto. Per questo dicono che nei paesi tuareg comandano le donne. Questo ce lo siamo portati anche qui».

Mentre racconta, noto che indossa una veste di un intenso azzurro, insieme al turbante che gli ho già visto addosso pochi giorni prima. Gli chiedo se sia quello il colore del popolo blu: «Sì. Perché poi rimane sulla pelle e allora ci chiamano popolo blu» sintetizza.

L’ampio salone della parrocchia è stato riempito di tavoli con tovaglie arancioni e bianche e panche e ornato a festa: al centro di quattro arazzi colorati, una grande fotografia del deserto sovrasta la carta politica dell’Africa del nord. Nella stampa la terra è stata lasciata bianca, increspata da alcuni rilievi montuosi colorati di nero e attraversata da alcune esili linee azzurre. Al centro, una figura gialla a forma di pesce indica le terre abitate dai tuareg: ricopre una piccola porzione fisica di tutti i paesi che la circondano, ma non coincide con nessuno dei confini segnati in rosa. Sul palcoscenico, una sella per dromedario. In alcuni cestoni di vimini, aspettano scintillanti alcune piccole sorprese impacchettate. È una sala che potrebbe ospitare indifferentemente una festa, una funzione religiosa o un saggio di danza.

Appena fuori dal salone, tre ragazzini giocano a basket nel campetto dell’oratorio, poi si fermano e iniziano a parlare degli esami di maturità. Si chiedono quale sarebbe la risposta corretta se qualcuno chiedesse loro cos’è la Costituzione. In un angolo siede Ibrahim, un signore di mezza età, che mi viene presentato come lo scrittore del gruppo. Sta ripassando da alcuni fogli le letture che ha preparato per questa sera, gli occhiali appoggiati sulla punta del naso. Sul retro del fascicolo la pagina è stata lasciata vuota e spicca solo un proverbio, evidenziato in giallo e stampato con un carattere leggermente più grande: Ciò che il deserto vuole è del deserto.

«Nel deserto non ci sono mica strade, solo direzioni».

Gli chiedo se ci sia stato spesso, per un attimo vedo nei suoi occhi un lampo sbigottito e insieme ironico. «È come se io ti chiedessi se sei mai stata al mare».
Inizia a raccontarmi la varietà di paesaggi del deserto: la distesa piatta, il deserto a dune, il deserto roccioso. “Il deserto negli occhi”, come titola il suo libro biografico, dall’infanzia al lavoro per venticinque anni come guida turistica nelle terre tuareg in Africa, dopo essere stato costretto alla fuga nel 2007 con l’accusa di aver appoggiato la rivolta tuareg contro lo sfruttamento dell’uranio e aver ottenuto lo status di rifugiato politico.
«Ma i ricchi rompono le scatole nel deserto. Personalità incredibili di Milano che chiedono tavola e panche per mangiare. E ti fanno le stesse domande ogni giorno: Lì è una capra? Sì, è una capra. Dopo cento metri, quella lì è una capra? Sì, quella è bianca, questa è nera».

Scoppiamo tutti a ridere. Moussa entra nel salone per dirci che sta andando a recuperare Aziz, un musicista tuareg bolognese che questa sera si esibirà durante la festa. Chiedo a Ibrahim se gli sia mai successo di perdersi nel deserto: «È capitato. Nel deserto non ci sono mica strade, solo direzioni. Ti perdi quando stai andando e hai nella testa qualcos’altro – si porta due dita alla tempia – quando sei distratto. Ma sei, massimo dieci chilometri, nulla di grave. Però non hai assistenza. Il deserto ti insegna ad affidarti a te stesso e questo è ciò che poi ti porti dentro di più. Chi ama il deserto ne vorrebbe sempre di più».

Mentre sto tornando a casa, ripenso alle parole di uno dei maggiori poeti contemporanei tuareg, Mahmoudan Hawad:

Quando il mio corpo cadrà sfinito
seppellitelo laggiù, sotto la duna
il midollo farà da humus.
La mia anima partirà gridando come un cammello
verso gli oceani
di cui nessuno custodisce gli accessi
.

Sedici anime in mezzo al lago

Trasimeno era un principe, figlio del dio Tirreno, narra la leggenda. Vagava nelle terre d’Etruria, in Italia centrale, s’imbatté in un lago: sostò sulle sue rive, vi si tuffò. Lo scorse una ninfa. Lui scorse lei, ne sentì il canto. Di colpo s’innamorò, perse il senso dell’orientamento, il senso di sé, annegò e il suo corpo non fu più ritrovato. Da allora quello specchio d’acqua – poco profondo, cinque o sei metri al massimo – porta il suo nome. L’Isola Maggiore è una delle tre isole che emergono dal Trasimeno, in realtà non la più estesa. Oggi conta sedici abitanti. Ogni estate, in media, sbarcano qui centoventimila turisti.

Non esistono alimentari, non c’è un medico. La prima volta che sono approdata qui, è stato in settembre: m’immaginavo di trovare quel senso di comunità, quello spirito di collaborazione e serenità che si tende a proiettare sui piccoli luoghi appartati, isolati; spesso idealizzandoli.

Il traghetto partiva da Tuoro sul Trasimeno. Sul lungo pontile assolato ho incontrato Chiara e suo nonno: lei lavora sull’isola, lui la guarda partire ogni mattina e tornare ogni sera. Mi ha invitato a salire con lei sulla barca del fidanzato Juri, insieme ad un gruppo di americani.

Oggi conta sedici abitanti. Ogni estate, in media, sbarcano qui centoventimila turisti.

Attracchiamo nel piccolo porticciolo sull’Isola. Dietro di noi arriva già un secondo traghetto, il Concordia II. Ripenso alle parole di Alessandro Gabbellini, nato sull’isola e titolare del ristorante “All’antico orologio”; le ho lette sul blog di Jean Wilmotte, olandese trasferitosi qui, uno dei pochi a trasmettere informazioni sul luogo.

«L’azienda dei trasporti per l’orario invernale, a partire dal 2015, ha eliminato quelle corse intermedie fondamentali per la vita degli abitanti ma anche per la sopravvivenza delle attività commerciali che mantengono viva una meta turistica che in un anno accoglie 120mila presenze. Se uno dei nostri anziani avesse bisogno di andare in farmacia è costretto a partire alle 8:11. Ve lo immaginate in una mattina d’inverno? E il rientro? Solo intorno a mezzogiorno. Per non parlare della domenica e dei festivi: i primi traghetti arrivano all’isola alle 10:35. Un cuoco, un cameriere non possono iniziare a lavorare a quell’ora. Tanto che ultimamente i tre locali sono stati costretti a chiudere nella stagione invernale: non si può lavorare con questi orari. E il Comune di Tuoro dov’è?»

Cammino lungo la strada principale, su cui si affacciano i portoni usurati di chi ha sempre vissuto di pesca. Non è difficile individuare chi sull’isola ci vive. Mi avvicino ad uno di loro. Se ne sta seduto su una panchina ombreggiata e osserva le persone passare, lo sguardo assente e sereno. Mi presento e lui lo fa con me. Si chiama Rolando, è nato qui nel 1938 e sembra non attendere altro che un po’ di attenzione, così mi siedo al suo fianco.

«Durante l’inverno ci levano tutti i battelli che ci sono ora, rimangono quattro corse , una al mattino, quella che prende mio figlio per andare a lavorare, una a mezzogiorno, una alle 3, e una alle 7 della sera. È un problema grosso: se ci prende qualche malattia, qualsiasi cosa, facciamo i corni, è un grosso problema. Le attività chiudono, ristoranti compresi, l’unica cosa che resta aperta è il bar tabacchi».

«Prego il Signore che ci dia la salute, spero sempre di poter star bene, almeno nel periodo invernale».

Mi interessano le scelte, le decisioni prese e quelle rimandate così a lungo da diventare a loro volta una posizione. Mi interessa quello sguardo e ciò che ha da raccontarmi, così approfondisco. Le domande sono concise così come le risposte; ma, con pazienza, si trasformano in una storia. La storia di un bambino che si è fermato alla quinta elementare per salire su una barca con i fratelli più grandi. Del bambino che diventa un ragazzo ed entra a far parte di una comunità di 40 pescatori, organizzati in una cooperativa, che vendeva il pesce sulla terraferma per guadagnarsi da vivere. La storia del lago, che nel 1956 si è prosciugato così tanto da non poter pescare più, solo alghe, una distesa di alghe marroni.

«Questo ha messo in crisi l’economia e così, tanti giovani se ne sono andati, tanti giovani che avrebbero potuto creare famiglia qui». Le mani si strofinano l’una contro l’altra mentre lascia fluire i ricordi, lo sguardo è spesso rivolto verso destra, in cerca dell’acqua, come di un appiglio, di una rassicurazione. «Ho tirato su una famiglia, c’ho un figlio che lavora fuori però viene sempre a casa ad Isola. Ho vissuto una vita come tutti gli altri; sulla terraferma ci si andava con le nostre barche, con le barche da pesca, però adesso, avendoci una certa età, non me la sento più di traversare il lago in quel modo. Prego il Signore che ci dia la salute, spero sempre di poter star bene, almeno nel periodo invernale. Sennò, ti alzi la mattina e non sai che cosa devi fare… Andrò a fare una passeggiata nel Poggio, mi dico, poi torno giù ed è sempre la solita storia».

Sospira e fa una pausa, mi guarda negli occhi. «Ho un fratello qui, Vittoriano, anche lui ha 86 anni. Uno affronta la situazione con spirito ma sai, a volte ti viene anche la voglia di buttarti giù. Venisse ogni tanto qualcuno ad interpellarci, a parlare di qualcosa… Tu ad esempio, che fai adesso? Mi fai una foto e poi? E poi riparti».

Sono tornata più volte sull’isola, nelle settimane e nei messi successivi. Ho incontrato Giulia, che porta avanti la tradizione del pizzo d’Irlanda, una di quelle donne cresciute cucendo le reti dei padri prima e dei mariti poi, una donna forte e preoccupata per la sua salute, una sedia vuota accanto a lei, ormai rimasta sola nella casa che si erge dietro alle sue spalle. Ma pare serena.

«La strada è sempre deserta, io mi affaccio dalla finestra, faccio bubusettete e poi mi ritiro perché se mi ammalo… I miei figli stanno fuori: una sta a Firenze e lavora a Prato, l’altro sta a Pompei a fare i restauri. Me ne è rimasto uno solo qui; ma la compagna sta sulla terraferma: così arriva la mattina e la sera riparte, e io sono sola, io e la Giulia» Ride. «Ora mi hanno messo telefoni da tutte le parti, anche al bagno, e una telecamera, così possono vedermi muovere».

Il suolo diventa un condominio, i confini sono mura e gli abitanti inquilini. Sono i protagonisti della loro commedia, che ogni giorno va in scena in un piccolo teatro appartato.

Sull’isola c’è anche Cristiano, uno dei più giovani, cura il verde e ha sempre preso decisioni pensando alla sua famiglia, come dice lui stesso; e insieme a lui Maurizio, che con una piccola barca traghetta turisti, li intrattiene con le sue storie, e poi ancora il silente “Regista”, come lo chiamano qua, e Fernanda, che facendo muovere le dita come un’abile direttrice d’orchestra con il suo uncinetto racconta: «Avevo 19 anni quando sono venuta qua. Mi sono spostata 62 anni fa con un isolano che aveva un alimentari. Io ero di Tuoro, non è stato un gran cambiamento, mi sono trovata subito bene, è un posto dove si sta bene, non ci sono rumori, c’è l’aria pulita, non è come fuori, con tutti quegli scarichi delle macchine».

«Siamo sedici», mi dice Rolando incurvando le spalle, «quasi tutte persone anziane». Passano le stagioni e ad ogni mia visita lo trovo sempre lì, seduto su una panchina vicino al pontile, in attesa. «Arrivati a una certa età non me la sento di fare battaglie o essere propositivo. C’è stato un periodo in cui lottavo, quando ero nella Pro Loco, però adesso non me la sento più. Certo, se mi dicessero di fare qualcosa la farei, ma dovremmo essere tutti uniti. E non lo siamo. Il problema è che non ci sono più persone che organizzano, si potrebbero fare dei mercatini di Natale ad esempio, come facevano all’Isola Polvese, però, chi lo organizza?».

Ce ne stiamo un po’ in silenzio, poi lui riprende: «Quando ero più giovane giravo l’Umbria, la Toscana, ma quasi sempre per lavoro, il massimo che ho potuto fare sono stati 200km. Io le ferie non le ho mai conosciute, le ho fatte solo sull’Isola». Io penso al mio bisogno di viaggiare, all’irrequietudine, alla ricerca quasi ossessiva del nuovo, poi mi fermo e chiedo: «Ma tu hai mai dormito in un altro posto?».
«No, ho dormito solo sul mio letto».

La risposta mi spiazza: ovvia per lui quanto incomprensibile per me. Rolando legge lo stupore nel mio viso così continua: «Ho vissuto abbastanza bene, ti dico la sincera verità. Rifarei la stessa vita perché eravamo liberi, non avevamo nessuno che ci diceva cosa fare. Io e Cesare, un altro pescatore, eravamo una coppia, siamo stati 34 anni a pescare insieme, quando lui diceva Ma vogliamo fa’ festa oggi?Facciamo festa rispondevo io. Tante volte siamo andati alla partita del Perugia la domenica, si lasciava tutto e si partiva, la libertà era quella. La vita passa e con il passare degli anni si invecchia, però a ripensare agli anni passati… Era bello insomma, uno poteva fare quello che voleva, ora non più».

Poco più in su, nel bosco che vigila sulla strada, c’è un albero sradicato, caduto in direzione di un muschio verde illuminato dal sole. La vita si palesa anche dove non ti aspetti. Dicono che il rumore delle foglie agitate dal vento che si sente qui – soprattutto in agosto, di sera, quando non ci sono i turisti – sia il lamento della ninfa che ancora cerca il principe Trasimeno.