Hotel Mauro – ricordi, ristorante, discoteca

Testo di Nicola Feninno, Fotografie di Michele Perletti

Premessa:
Questo reportage nasce circa quattro anni fa e ha una genesi particolare.

Era un periodo delicato e decisivo per noi di CTRL: rischiavamo la chiusura e abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding tra i nostri lettori. È andata benissimo e, da allora, siamo cresciuti e abbiamo pubblicato quattro libri.
Tra le diverse modalità che avevamo attivato per darci un sostegno economico c’era l’opzione del “reportage a casa tua”.
Bruno, un amico e grande sostenitore, ci ha addirittura aperto le porte di un hotel.
In mezzo, poi, c’è stato un periodo drammatico prima per Bergamo e poi per tutta l’Italia.
Ora, finalmente, questo racconto vede la luce.


I.
NEL TARDO POMERIGGIO

Tutte le otto figure – nella penombra si intuiscono solo i contorni – d’un tratto fissano un punto del soffitto: non c’è niente. In quel punto, un tempo, pendeva la strobosfera. Guardo anch’io e la immagino, frantuma la luce, la moltiplica, la fa girare in tondo stampandola contro i volti sudati di chi balla e di chi sta immobile con un drink, muove solo il piede, guardando gli altri che ballano, ogni tanto si porta la cannuccia alla bocca.
Si sono fregati la strobosfera, dice una voce maschile.
È qui la festa? Un’altra voce, femminile, che scende giù dalle scale, rimbomba e viene assorbita dalle pareti insonorizzate dello stanzone qui nel piano interrato. Un’ombra gli va incontro per accoglierla. Io cerco di non perdermi i movimenti.
Da quanto tempo è chiuso l’albergo? Chiede la voce femminile.
Ormai sono venticinque anni, risponde l’ombra, l’ho riconosciuta dalla voce: è Bruno, e adesso illumina la figura femminile con la torcia del cellulare. Lei tossisce, come per reazione alla luce, indossa dei jeans e una maglia blu. Poi la torcia si rivolge verso di me, mi acceca.
Sono ancora comodi i divanetti, vero?
Io faccio cenno di sì, accarezzando il velluto della copertura, che mi lascia uno strato di polvere, come un guanto, sulla mano.
La luce si abbassa sulla moquette del pavimento, subito avanza basculando, torna verso il centro di quella che fino a venticinque anni fa era una discoteca, al piano interrato dell’Hotel Mauro, chiuso definitivamente nel 1997.

Resto qui seduto in disparte ad ascoltare, i miei occhi tornano ad abituarsi all’oscurità. Il gruppo di amici continua la danza dei ricordi e io trattengo quello che riesco, senza fare domande, afferro brandelli sbalzati da un passato che non è il mio. Devono avere tutti intorno ai cinquant’anni.
Ci sarebbero anche le uscite di sicurezza! Dice una delle ombre.
Però hanno staccato la corrente.
Ci portiamo un generatore.
Una sera sola! La vita che ritorna per una sera sola qua a Miragolo!
Risate. Colpi di tosse.
E abbiamo pure il bodyguard!
Suono secco di una pacca su un paio di spalle ben piantate.
Altre risate. Due ombre si staccano dal resto del gruppo, parlano della prima volta che hanno fatto l’amore, proprio qui sotto.
Era per terra o sul divanetto?
Sul divanetto. Su questo divanetto.
No, per terra.
Allora avremo iniziato sul divanetto e poi saremo rotolati per terra.

Devono amarsi ancora, si intuisce dal modo in cui giungono a un accordo sulla ricostruzione del loro passato. Tossiscono entrambi. Poi chiamano a raccolta gli altri, vogliono fare una foto. Chiedono se posso scattarla io.
Come sempre, c’è un attimo di silenzio dopo il cheeeeeese e prima del flash.
Ho l’impressione di essere un dinosauro!, dice una delle ombre.
Scatto una seconda, una terza e una quarta foto con il cellulare di Bruno. Ad ogni flash, per un attimo, mi appaiono i tratti dei nove volti, le espressioni, i vestiti.
Vi ricordate quella volta che ho fatto ballare la sciura Maria, un lento, qui davanti a tutti? Anche questa voce la riconosco: è Giuliano, era seduto di fianco a me a tavola, a pranzo.
Un ultimo flash ed esco a prendere aria.


Mi siedo su una panchina che affaccia su una via, si chiama via Centro, porta al centro di Miragolo San Marco, frazione di Zogno, in Valle Brembana. Quasi mille metri di altitudine. Gli abitanti sono cento, poco più, forse poco meno, in questi casi non c’è da fidarsi dei dati ISTAT.
Tossisco e in bocca sento la polvere della discoteca che si è mischiata al sapore della torta alle due creme.

II.
A PRANZO

Siamo tutti intorno al tavolo. È domenica. L’indirizzo è: Miragolo San Marco, via Centro, civico 17/A. Ti tieni l’hotel Mauro sulla destra, e dopo una cinquantina di metri sei arrivato. C’è il sole, l’estate del 2022 è finita da poco. Nel piatto ci sono gli antipasti.
Prego, servitevi.
Prima, un brindisi.
Alla signora Maria?
Alla signora Maria.
Si chiama Hotel Mauro perché l’ha costruito mio fratello Mauro. È stato inaugurato nel 1969. Nel 1969 a Miragolo non arrivava neanche la strada, c’era solo una mulattiera. Un attimo che vado a tirare fuori le crespelle dal forno, dice la signora Maria.
Aveva 24 anni, lo zio Mauro, quando sono iniziati i lavori, continua Silvia, la figlia.
Era partito con l’idea di fare un ristorantino. Poi, già che c’era, ha deciso di fare su un hotel, aggiunge Walter, il fratello di Silvia.
Lo zio ha chiamato la mamma perché gli serviva una cuoca, dice Orietta un’altra sorella.
Ma aveva mai fatto la cuoca prima? Chiedo io.
Per il giorno dell’inaugurazione era stato arruolato un cuoco, mi risponde la signora Maria, che era andata in cucina e ora è tornata al tavolo con una grossa teglia di crespelle, che passa a Maura, l’ultima delle sue figlie, che si serve e poi fa girare.
Però quel cuoco lì non si è presentato. Così il Mauro ha telefonato al posto pubblico di Valbrembo, all’epoca nessuno aveva il telefono in casa; dal posto pubblico vengono a chiamarmi – allora abitavo a Valbrembo; sono nata a Miragolo ma poi mi ero trasferita a Valbrembo. Mio fratello al telefono mi dice: Sono rimasto senza cuoco, non so come fare, vieni su a darmi una mano? Va bene, gli rispondo. E da quel giorno non sono più andata via.
Ma quindi, signora, lei non aveva mai fatto la cuoca?
No.
E come ha fatto?
Mi sono buttata dentro, ho improvvisato.

Però, mamma, tu dal figlio della contessa Marzotto…
Lì facevo la cameriera.
Quanti anni aveva?
Quattordici. Anzi, no, undici…il piangere che ho fatto. Da Miragolo si andava a Zogno, e da Zogno si prendeva il treno per Milano. Tornavo ogni due o tre mesi. La casa del figlio della contessa Marzotto era in piazza San Babila, lì vicino. Dovevi stare attenta a spolverare, perché era tutta argenteria. E anche al servizio in tavola, ci voleva attenzione: i signori non dovevano restare mai senza il piatto sulla tovaglia; se ne toglievi uno con una mano, con l’altra dovevi metterne un altro, contemporaneamente.
Le mani della signora Maria si ricordano perfettamente il movimento, e lo ripropongono.
Sotto il bicchiere ci andava un piattino d’argento. Un altro, sempre d’argento, dove andava il panino. Tutte quelle cose lì. Alla fine, però, erano gente alla buona: erano il figlio della contessa, la moglie e due bambini. Io avevo la mia stanza e il mio bagno. La signora metteva i pantaloncini corti ai bambini anche d’inverno; diceva che dovevano rinforzarsi le gambe. E con la Silvia ho fatto anch’io così. Pantaloncini corti anche d’inverno.
Però, mamma, qua d’inverno fa più freddo che a Milano.
Sì, però ti sei ammalata meno di tutti gli altri bambini.
La teglia arriva tra le mie mani: crespelle con funghi e crespelle con prosciutto. Silvia mi dice che lo zio Mauro, dopo l’hotel, aveva costruito un impianto di risalita poco distante. Lei aveva cinque, sei anni, si ricorda i pullman che salivano fino a qui, quasi duecento bambini ogni domenica, poi tutti a mangiare all’hotel.
Nevicava molto più spesso.
Il Mauro aveva un’agenzia di compravendite, Agenzia Brembana. Si faceva pubblicità sui giornali e alla radio locale. E in tutte le pubblicità c’era il numero di telefono. Quella che rispondeva al telefono ero io – la signora Maria mi fa un sorriso. Dovevo capire se dall’altra parte c’era uno che i soldi ce li aveva. Se non ce li aveva era una perdita di tempo. E mio fratello non sopportava di perdere tempo, perché il tempo è soldi.
E come faceva a capire se quello all’altro capo del telefono aveva i soldi?
Sono cose che si capiscono. Basta prenderla un po’ larga.

Walter mi riempie il bicchiere e aggiunge: Aveva il maggiolone, lo zio Mauro. Faceva la spesa senza scendere, tirando giù il finestrino, urlava gli ordini e poi, al ritorno, ritirava tutto, sempre dal finestrino.
Andava sempre di corsa.
A casa mangiava la minestra in piedi.
Walter, ti ricordi quella volta che ha preso la banconota da 100 mila lire, l’ha strappata a metà, e ha dato un pezzo a me e un pezzo a te? Dice Silvia.
Che poi ci ha detto: Andate al bar e prendete quello che volete!
Era matto.
Aveva la coda di donne dietro.
Se fosse vissuto più a lungo…
Scusate, vado a controllare l’arrosto.
Quando è morto lo zio Mauro? Chiedo a Bruno.
Poi lo chiediamo a mia suocera, che non mi ricordo la data precisa.
Qualcuno vuole il bis?
Su, che sono rimaste quattro crespelle, non si buttano.
I funghi li ha raccolti il Walter.
È Walter il fungaiolo.
Silvia, raccontagli quella cosa del pantaloncino! Dice Orietta.
Ma no, non usciamo fuori tema, dice Bruno.
Io e lui ci siamo conosciuti all’hotel. Io lavoravo con mia mamma, lui veniva su in vacanza tutte le estati. Ha sette anni meno di me. L’avevo visto sempre come un ragazzino. Poi è successo qualcosa.
Silvia si è presa la scena e indica il marito.
L’avevo visto come un bambino fino al giorno prima. Poi non so. Non ti è mai capitato? Non ti è mai capitato che fino a un attimo prima guardi una persona, la vedi in un certo modo, poi basta un attimo e hai occhi completamente diversi? E non è più possibile tornare indietro all’immagine di prima. Hai presente? Ecco, a me è capitato quando l’ho visto con quei pantaloncini addosso, forse dipende tutto da quei pantaloncini, che ne so. Devo controllare, che secondo me in casa li abbiamo conservati da qualche parte.
Signora Maria, in che anno è morto il Mauro? Chiede Bruno, che forse è imbarazzato, non si capisce.
Nel 1979. 30 giugno del 1979. Si era sposato l’anno prima, il 19 giugno del 1978. Aveva 35 anni.
Quando ha aperto l’hotel aveva 25 anni, calcolo io mentalmente, mentre Giuliano, il marito di Orietta, che è seduto a fianco a me, mi passa l’arrosto.
Questo è il famoso arrosto della signora Maria! Lo cucinava anche ai matrimoni.
Quanto fa l’Atalanta?
Controllo.
Ancora zero a zero.
Quanto manca?
Fine primo tempo.
Quando è morto l’hotel non era già più del Mauro. L’aveva venduto al Nello nel 1974. I soldi li aveva la moglie, la moglie del Nello, era proprietaria di una profumeria in centro a Milano. La loro idea era vendere la profumeria e starsene quassù, tranquilli, con l’hotel. Se non che, nel frattempo, la moglie si è accorta che il Nello aveva l’amante. E l’ha mollato. Lui non ha più pagato. Così nel 1981 l’hotel è finito all’asta. All’asta l’ha ritirato il Colleoni, quello del Centro Moda Colleoni, in centro a Zogno, insieme con il geometra Amore, anche lui di Zogno. Mi hanno chiesto se ero disponibile a lavorare per loro e mandare avanti l’hotel, stipendiata. Ho detto subito di sì.
400 mila lire al mese, ci lavoravo tutti i giorni come se fosse il mio hotel. 400 mila lire non erano niente, però avevo la possibilità di tenere lì i bambini, che erano tutti piccoli.

La signora Maria beve un bicchiere d’acqua e si crea un intervallo di silenzio. Silvia mi dice che suo padre era morto nel 1980, un anno dopo lo zio. A quel punto la signora Maria era una casalinga con quattro figli, la più piccola, Maura detta Popi, aveva sette mesi. Non avevano un soldo, e quando Colleoni e il geometra Amore le hanno offerto di lavorare nell’hotel, l’hotel che era di suo fratello, che conosceva così bene, che era a due passi da casa, per lei è stata come la manna scesa dal cielo.
La signora Maria si pulisce le labbra con il tovagliolo e riprende: il Colleoni, dopo qualche anno, mi dice, signora Maria, noi ora facciamo il contratto e lo firmiamo; sopra c’è scritto che mi deve 15 milioni di lire di affitto all’anno, ma non deve rispettare quello che c’è scritto. Se riesce a darmi dieci milioni va bene. O anche cinque, o uno o niente. Non m’interessa. L’importante è che lei lo tenga da conto come fa adesso. Ho firmato. Nel 1985 mi hanno dato le licenze alla Camera di Commercio. E fino al 1997 l’ho portato avanti da sola.
L’arrosto è buonissimo, signora.
Prendine ancora una fettina.

Silvia mi racconta che ha due incubi ricorrenti. Il primo: sua madre, lei, sua sorella Orietta e suo fratello hanno preparato la sala per il cenone di Capodanno, la capienza è di 180 persone. Nevica troppo. Così sono costretti a buttare via tutto il cibo.
Il secondo: sempre Capodanno, i 180 ospiti sono tutti seduti in sala e non c’è niente di pronto da mangiare.

Bruno racconta di quando veniva arruolato come cameriere ai quei cenoni di Capodanno, qualche volta ha fatto anche il dj, nella discoteca del piano interrato.
Silvia e Orietta si divertivano a indossare le pellicce delle sciure milanesi, nel guardaroba, e si guardavano allo specchio imitandone l’accento.
Viene fuori anche la storia di un habitué che passava ore e ore al telefono, c’era una cabina al piano inferiore, in un locale attiguo a quello della discoteca, all’altro capo del telefono c’era la sua amante.

I ricordi, uno dopo l’altro, creano un vortice che dà l’impressione di potersi allargare all’infinito, ma poi, come sempre accade, si richiude su se stesso, si quieta, e siamo tutti ancora integri.La signora Maria ne approfitta per portare a tavola un piatto di formaggi, che inizia a fare il suo giro.

Signora Maria, quali erano i piatti che cucinava più spesso all’hotel? Chiedo io.
Eh, tanti.
Il suo preferito?
Li conosci i nosecc?
Faccio cenno di no.
I veri nosecc che si mangiavano da me, quando ero bambina, si facevano con le foglie di verza, quelle scure che si trovano solo in primavera e all’inizio dell’estate. Dentro la foglia si mette il ripieno, si lega per fare un pacchettino, si mette a bollire con delle fette di lardo nell’acqua.
Il papà, dice Maria ruotando lo sguardo sui suoi quattro figli, quel giorno che è caduto, aveva mangiato i nosecc. Era felicissimo.
Senza lasciare troppo silenzio in mezzo, riprende: Io cosa mi sono inventata all’hotel? I nosecc con le foglie di verza bianca: quelle ci sono tutto l’anno; e, invece che farli bollire, li facevo al forno, con il pomodoro.
Silvia aggiunge che una volta, con dei clienti, si è inventata la storia di un bisnonno, che aveva fatto la guerra in Russia, e che aveva importato il piatto da lì. Aveva funzionato. Per cui la riproponeva spesso: nosecc “alla russa”.
È iniziato il secondo tempo. Si riparte dallo zero a zero.

A volte d’estate, interviene la signora Maria, chiudevo alle 3 del mattino e lo trovavo ancora fuori, con i suoi amici. Indica Bruno. Così dicevo: a tutti quelli che trovo ancora qui alle 6 offro il cappuccino e la brioche, in cambio di qualche lavoretto.
A volte ce ne andavamo, dice Bruno, che se no venivamo messi a pulire tutto il salone. Altre volte invece, aspettavamo l’alba, lei ci offriva la colazione e poi ci faceva ramazzare, buttare i sacchi dell’immondizia o fare su e giù dalla cantina con le casse delle bibite. Però, la verità, e non lo dico solo perché è mia suocera, è che la sciura Maria è stata la seconda mamma per tutti noi.
Sai qual è il piatto che cucino più spesso, io? Mi dice Silvia.
La bresaola.
Bruno ride.
Nessuna di noi sorelle ama cucinare, odiamo i fornelli, è come se questa cucina ci avesse portato via nostra madre, dice Orietta, mentre Bruno mi fa vedere sul cellulare un video di Norberto Tarenghi, un musicista di San Giovanni Bianco, che veniva a suonare all’hotel tutti i capodanni.
Chissà se è ancora vivo.
Prova a cercare su Google.
Non esce niente.
Ho fatto la torta alle due creme, dice la signora Maria, prima di sparire di nuovo in cucina.
Con un tono di voce più basso Silvia mi racconta che l’hotel ha chiuso definitivamente il 30 settembre del 1997, era un martedì, la domenica prima c’era stato un pranzo di battesimo. I clienti erano andati diminuendo negli ultimi anni. L’affitto si era alzato. La proprietaria era diventata la moglie del Colleoni: voleva una cifra altissima, che non potevamo permetterci. È stato lì che mia mamma ha deciso di chiudere per sempre. È andata in depressione. Noi non ce ne siamo accorte, eravamo già grandi. Ce l’ha confidato il suo medico.
Il pensiero di farmi mantenere dai miei figli… La signora Maria è ritornata, con la torta, è come se avesse sentito quello che mi stava raccontando Silvia.
Per me era inaccettabile. Sono stata male, di un male che, non lo so. Stavo bene solo in casa, solo se non vedevo nessuno. Come vedevo una persona, mi prendeva un tremore, così, in tutto il corpo. Non dormivo più. Mi ricordo che un giorno, qui a casa, c’era mio nipote, il Marco, gli stavo portando il caffè, mi ha preso il tremore e ho rovesciato tutto il caffè sul pavimento. Era l’inizio dell’estate. Pochi giorni dopo ho seguito il consiglio del Don Giorgio, il parroco: mi ha detto, Signora Maria lei deve sparire, andare da un’altra parte, tra poco arrivano tutti i milanesi delle seconde case, e vorranno venire tutti a salutarla, tutti a parlare dell’hotel, del passato, di quello che è successo. Non ce l’avrei fatta. Così si è presentata l’occasione per dare una mano all’Isba. Io l’ho accettata. Me ne sono andata.
L’Isba era un grosso ristorante a Castelli Calepio, mi spiega Silvia.
E piano piano sono tornata a stare bene.

Siamo pronti per andare?
Finiamo il caffè e ci siamo.
Mamma, vuoi venire anche tu all’hotel?
No. Non riesco a vederlo così. Voi andate.
Sicura?
Sì.

III.
CIRCA DUE ANNI PRIMA

Il Bello dell’Usato, si chiama così il magazzino di mobili usati che ha creato Bruno. È a Gorle, vicino a Bergamo. Domani si festeggia l’inizio del 2020. Scatto una fotografia a una biscottiera a forma di torta, credo sia di ceramica. Poi a una borsa di pelle color amaranto, tavolini, lampade, sedute, complementi, vecchi libri, bicchieri, un grosso furgone, l’ufficio, il volto di Bruno. Quando torno a casa, sul cellulare, ho due ore di registrazioni che finiscono con lui che mi dice: Senti. Ho pensato che la storia da raccontare è quella di un hotel. Ci passavo tutte le estati. Ho conosciuto lì mia moglie. Lo gestiva sua madre, mia suocera, la signora Maria. Lasciami il numero, che una di queste domeniche organizziamo un pranzo su da lei, se non cade troppa neve.

Premessa:
Questo reportage nasce circa quattro anni fa e ha una genesi particolare.

Era un periodo delicato e decisivo per noi di CTRL: rischiavamo la chiusura e abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding tra i nostri lettori. È andata benissimo e, da allora, siamo cresciuti e abbiamo pubblicato quattro libri.
Tra le diverse modalità che avevamo attivato per darci un sostegno economico c’era l’opzione del “reportage a casa tua”.
Bruno, un amico e grande sostenitore, ci ha addirittura aperto le porte di un hotel.
In mezzo, poi, c’è stato un periodo drammatico prima per Bergamo e poi per tutta l’Italia.
Ora, finalmente, questo racconto vede la luce.


I.
NEL TARDO POMERIGGIO

Tutte le otto figure – nella penombra si intuiscono solo i contorni – d’un tratto fissano un punto del soffitto: non c’è niente. In quel punto, un tempo, pendeva la strobosfera. Guardo anch’io e la immagino, frantuma la luce, la moltiplica, la fa girare in tondo stampandola contro i volti sudati di chi balla e di chi sta immobile con un drink, muove solo il piede, guardando gli altri che ballano, ogni tanto si porta la cannuccia alla bocca.
Si sono fregati la strobosfera, dice una voce maschile.
È qui la festa? Un’altra voce, femminile, che scende giù dalle scale, rimbomba e viene assorbita dalle pareti insonorizzate dello stanzone qui nel piano interrato. Un’ombra gli va incontro per accoglierla. Io cerco di non perdermi i movimenti.
Da quanto tempo è chiuso l’albergo? Chiede la voce femminile.
Ormai sono venticinque anni, risponde l’ombra, l’ho riconosciuta dalla voce: è Bruno, e adesso illumina la figura femminile con la torcia del cellulare. Lei tossisce, come per reazione alla luce, indossa dei jeans e una maglia blu. Poi la torcia si rivolge verso di me, mi acceca.
Sono ancora comodi i divanetti, vero?
Io faccio cenno di sì, accarezzando il velluto della copertura, che mi lascia uno strato di polvere, come un guanto, sulla mano.
La luce si abbassa sulla moquette del pavimento, subito avanza basculando, torna verso il centro di quella che fino a venticinque anni fa era una discoteca, al piano interrato dell’Hotel Mauro, chiuso definitivamente nel 1997.

Resto qui seduto in disparte ad ascoltare, i miei occhi tornano ad abituarsi all’oscurità. Il gruppo di amici continua la danza dei ricordi e io trattengo quello che riesco, senza fare domande, afferro brandelli sbalzati da un passato che non è il mio. Devono avere tutti intorno ai cinquant’anni.
Ci sarebbero anche le uscite di sicurezza! Dice una delle ombre.
Però hanno staccato la corrente.
Ci portiamo un generatore.
Una sera sola! La vita che ritorna per una sera sola qua a Miragolo!
Risate. Colpi di tosse.
E abbiamo pure il bodyguard!
Suono secco di una pacca su un paio di spalle ben piantate.
Altre risate. Due ombre si staccano dal resto del gruppo, parlano della prima volta che hanno fatto l’amore, proprio qui sotto.
Era per terra o sul divanetto?
Sul divanetto. Su questo divanetto.
No, per terra.
Allora avremo iniziato sul divanetto e poi saremo rotolati per terra.

Devono amarsi ancora, si intuisce dal modo in cui giungono a un accordo sulla ricostruzione del loro passato. Tossiscono entrambi. Poi chiamano a raccolta gli altri, vogliono fare una foto. Chiedono se posso scattarla io.
Come sempre, c’è un attimo di silenzio dopo il cheeeeeese e prima del flash.
Ho l’impressione di essere un dinosauro!, dice una delle ombre.
Scatto una seconda, una terza e una quarta foto con il cellulare di Bruno. Ad ogni flash, per un attimo, mi appaiono i tratti dei nove volti, le espressioni, i vestiti.
Vi ricordate quella volta che ho fatto ballare la sciura Maria, un lento, qui davanti a tutti? Anche questa voce la riconosco: è Giuliano, era seduto di fianco a me a tavola, a pranzo.
Un ultimo flash ed esco a prendere aria.


Mi siedo su una panchina che affaccia su una via, si chiama via Centro, porta al centro di Miragolo San Marco, frazione di Zogno, in Valle Brembana. Quasi mille metri di altitudine. Gli abitanti sono cento, poco più, forse poco meno, in questi casi non c’è da fidarsi dei dati ISTAT.
Tossisco e in bocca sento la polvere della discoteca che si è mischiata al sapore della torta alle due creme.

II.
A PRANZO

Siamo tutti intorno al tavolo. È domenica. L’indirizzo è: Miragolo San Marco, via Centro, civico 17/A. Ti tieni l’hotel Mauro sulla destra, e dopo una cinquantina di metri sei arrivato. C’è il sole, l’estate del 2022 è finita da poco. Nel piatto ci sono gli antipasti.
Prego, servitevi.
Prima, un brindisi.
Alla signora Maria?
Alla signora Maria.
Si chiama Hotel Mauro perché l’ha costruito mio fratello Mauro. È stato inaugurato nel 1969. Nel 1969 a Miragolo non arrivava neanche la strada, c’era solo una mulattiera. Un attimo che vado a tirare fuori le crespelle dal forno, dice la signora Maria.
Aveva 24 anni, lo zio Mauro, quando sono iniziati i lavori, continua Silvia, la figlia.
Era partito con l’idea di fare un ristorantino. Poi, già che c’era, ha deciso di fare su un hotel, aggiunge Walter, il fratello di Silvia.
Lo zio ha chiamato la mamma perché gli serviva una cuoca, dice Orietta un’altra sorella.
Ma aveva mai fatto la cuoca prima? Chiedo io.
Per il giorno dell’inaugurazione era stato arruolato un cuoco, mi risponde la signora Maria, che era andata in cucina e ora è tornata al tavolo con una grossa teglia di crespelle, che passa a Maura, l’ultima delle sue figlie, che si serve e poi fa girare.
Però quel cuoco lì non si è presentato. Così il Mauro ha telefonato al posto pubblico di Valbrembo, all’epoca nessuno aveva il telefono in casa; dal posto pubblico vengono a chiamarmi – allora abitavo a Valbrembo; sono nata a Miragolo ma poi mi ero trasferita a Valbrembo. Mio fratello al telefono mi dice: Sono rimasto senza cuoco, non so come fare, vieni su a darmi una mano? Va bene, gli rispondo. E da quel giorno non sono più andata via.
Ma quindi, signora, lei non aveva mai fatto la cuoca?
No.
E come ha fatto?
Mi sono buttata dentro, ho improvvisato.

Però, mamma, tu dal figlio della contessa Marzotto…
Lì facevo la cameriera.
Quanti anni aveva?
Quattordici. Anzi, no, undici…il piangere che ho fatto. Da Miragolo si andava a Zogno, e da Zogno si prendeva il treno per Milano. Tornavo ogni due o tre mesi. La casa del figlio della contessa Marzotto era in piazza San Babila, lì vicino. Dovevi stare attenta a spolverare, perché era tutta argenteria. E anche al servizio in tavola, ci voleva attenzione: i signori non dovevano restare mai senza il piatto sulla tovaglia; se ne toglievi uno con una mano, con l’altra dovevi metterne un altro, contemporaneamente.
Le mani della signora Maria si ricordano perfettamente il movimento, e lo ripropongono.
Sotto il bicchiere ci andava un piattino d’argento. Un altro, sempre d’argento, dove andava il panino. Tutte quelle cose lì. Alla fine, però, erano gente alla buona: erano il figlio della contessa, la moglie e due bambini. Io avevo la mia stanza e il mio bagno. La signora metteva i pantaloncini corti ai bambini anche d’inverno; diceva che dovevano rinforzarsi le gambe. E con la Silvia ho fatto anch’io così. Pantaloncini corti anche d’inverno.
Però, mamma, qua d’inverno fa più freddo che a Milano.
Sì, però ti sei ammalata meno di tutti gli altri bambini.
La teglia arriva tra le mie mani: crespelle con funghi e crespelle con prosciutto. Silvia mi dice che lo zio Mauro, dopo l’hotel, aveva costruito un impianto di risalita poco distante. Lei aveva cinque, sei anni, si ricorda i pullman che salivano fino a qui, quasi duecento bambini ogni domenica, poi tutti a mangiare all’hotel.
Nevicava molto più spesso.
Il Mauro aveva un’agenzia di compravendite, Agenzia Brembana. Si faceva pubblicità sui giornali e alla radio locale. E in tutte le pubblicità c’era il numero di telefono. Quella che rispondeva al telefono ero io – la signora Maria mi fa un sorriso. Dovevo capire se dall’altra parte c’era uno che i soldi ce li aveva. Se non ce li aveva era una perdita di tempo. E mio fratello non sopportava di perdere tempo, perché il tempo è soldi.
E come faceva a capire se quello all’altro capo del telefono aveva i soldi?
Sono cose che si capiscono. Basta prenderla un po’ larga.

Walter mi riempie il bicchiere e aggiunge: Aveva il maggiolone, lo zio Mauro. Faceva la spesa senza scendere, tirando giù il finestrino, urlava gli ordini e poi, al ritorno, ritirava tutto, sempre dal finestrino.
Andava sempre di corsa.
A casa mangiava la minestra in piedi.
Walter, ti ricordi quella volta che ha preso la banconota da 100 mila lire, l’ha strappata a metà, e ha dato un pezzo a me e un pezzo a te? Dice Silvia.
Che poi ci ha detto: Andate al bar e prendete quello che volete!
Era matto.
Aveva la coda di donne dietro.
Se fosse vissuto più a lungo…
Scusate, vado a controllare l’arrosto.
Quando è morto lo zio Mauro? Chiedo a Bruno.
Poi lo chiediamo a mia suocera, che non mi ricordo la data precisa.
Qualcuno vuole il bis?
Su, che sono rimaste quattro crespelle, non si buttano.
I funghi li ha raccolti il Walter.
È Walter il fungaiolo.
Silvia, raccontagli quella cosa del pantaloncino! Dice Orietta.
Ma no, non usciamo fuori tema, dice Bruno.
Io e lui ci siamo conosciuti all’hotel. Io lavoravo con mia mamma, lui veniva su in vacanza tutte le estati. Ha sette anni meno di me. L’avevo visto sempre come un ragazzino. Poi è successo qualcosa.
Silvia si è presa la scena e indica il marito.
L’avevo visto come un bambino fino al giorno prima. Poi non so. Non ti è mai capitato? Non ti è mai capitato che fino a un attimo prima guardi una persona, la vedi in un certo modo, poi basta un attimo e hai occhi completamente diversi? E non è più possibile tornare indietro all’immagine di prima. Hai presente? Ecco, a me è capitato quando l’ho visto con quei pantaloncini addosso, forse dipende tutto da quei pantaloncini, che ne so. Devo controllare, che secondo me in casa li abbiamo conservati da qualche parte.
Signora Maria, in che anno è morto il Mauro? Chiede Bruno, che forse è imbarazzato, non si capisce.
Nel 1979. 30 giugno del 1979. Si era sposato l’anno prima, il 19 giugno del 1978. Aveva 35 anni.
Quando ha aperto l’hotel aveva 25 anni, calcolo io mentalmente, mentre Giuliano, il marito di Orietta, che è seduto a fianco a me, mi passa l’arrosto.
Questo è il famoso arrosto della signora Maria! Lo cucinava anche ai matrimoni.
Quanto fa l’Atalanta?
Controllo.
Ancora zero a zero.
Quanto manca?
Fine primo tempo.
Quando è morto l’hotel non era già più del Mauro. L’aveva venduto al Nello nel 1974. I soldi li aveva la moglie, la moglie del Nello, era proprietaria di una profumeria in centro a Milano. La loro idea era vendere la profumeria e starsene quassù, tranquilli, con l’hotel. Se non che, nel frattempo, la moglie si è accorta che il Nello aveva l’amante. E l’ha mollato. Lui non ha più pagato. Così nel 1981 l’hotel è finito all’asta. All’asta l’ha ritirato il Colleoni, quello del Centro Moda Colleoni, in centro a Zogno, insieme con il geometra Amore, anche lui di Zogno. Mi hanno chiesto se ero disponibile a lavorare per loro e mandare avanti l’hotel, stipendiata. Ho detto subito di sì.
400 mila lire al mese, ci lavoravo tutti i giorni come se fosse il mio hotel. 400 mila lire non erano niente, però avevo la possibilità di tenere lì i bambini, che erano tutti piccoli.

La signora Maria beve un bicchiere d’acqua e si crea un intervallo di silenzio. Silvia mi dice che suo padre era morto nel 1980, un anno dopo lo zio. A quel punto la signora Maria era una casalinga con quattro figli, la più piccola, Maura detta Popi, aveva sette mesi. Non avevano un soldo, e quando Colleoni e il geometra Amore le hanno offerto di lavorare nell’hotel, l’hotel che era di suo fratello, che conosceva così bene, che era a due passi da casa, per lei è stata come la manna scesa dal cielo.
La signora Maria si pulisce le labbra con il tovagliolo e riprende: il Colleoni, dopo qualche anno, mi dice, signora Maria, noi ora facciamo il contratto e lo firmiamo; sopra c’è scritto che mi deve 15 milioni di lire di affitto all’anno, ma non deve rispettare quello che c’è scritto. Se riesce a darmi dieci milioni va bene. O anche cinque, o uno o niente. Non m’interessa. L’importante è che lei lo tenga da conto come fa adesso. Ho firmato. Nel 1985 mi hanno dato le licenze alla Camera di Commercio. E fino al 1997 l’ho portato avanti da sola.
L’arrosto è buonissimo, signora.
Prendine ancora una fettina.

Silvia mi racconta che ha due incubi ricorrenti. Il primo: sua madre, lei, sua sorella Orietta e suo fratello hanno preparato la sala per il cenone di Capodanno, la capienza è di 180 persone. Nevica troppo. Così sono costretti a buttare via tutto il cibo.
Il secondo: sempre Capodanno, i 180 ospiti sono tutti seduti in sala e non c’è niente di pronto da mangiare.

Bruno racconta di quando veniva arruolato come cameriere ai quei cenoni di Capodanno, qualche volta ha fatto anche il dj, nella discoteca del piano interrato.
Silvia e Orietta si divertivano a indossare le pellicce delle sciure milanesi, nel guardaroba, e si guardavano allo specchio imitandone l’accento.
Viene fuori anche la storia di un habitué che passava ore e ore al telefono, c’era una cabina al piano inferiore, in un locale attiguo a quello della discoteca, all’altro capo del telefono c’era la sua amante.

I ricordi, uno dopo l’altro, creano un vortice che dà l’impressione di potersi allargare all’infinito, ma poi, come sempre accade, si richiude su se stesso, si quieta, e siamo tutti ancora integri.La signora Maria ne approfitta per portare a tavola un piatto di formaggi, che inizia a fare il suo giro.

Signora Maria, quali erano i piatti che cucinava più spesso all’hotel? Chiedo io.
Eh, tanti.
Il suo preferito?
Li conosci i nosecc?
Faccio cenno di no.
I veri nosecc che si mangiavano da me, quando ero bambina, si facevano con le foglie di verza, quelle scure che si trovano solo in primavera e all’inizio dell’estate. Dentro la foglia si mette il ripieno, si lega per fare un pacchettino, si mette a bollire con delle fette di lardo nell’acqua.
Il papà, dice Maria ruotando lo sguardo sui suoi quattro figli, quel giorno che è caduto, aveva mangiato i nosecc. Era felicissimo.
Senza lasciare troppo silenzio in mezzo, riprende: Io cosa mi sono inventata all’hotel? I nosecc con le foglie di verza bianca: quelle ci sono tutto l’anno; e, invece che farli bollire, li facevo al forno, con il pomodoro.
Silvia aggiunge che una volta, con dei clienti, si è inventata la storia di un bisnonno, che aveva fatto la guerra in Russia, e che aveva importato il piatto da lì. Aveva funzionato. Per cui la riproponeva spesso: nosecc “alla russa”.
È iniziato il secondo tempo. Si riparte dallo zero a zero.

A volte d’estate, interviene la signora Maria, chiudevo alle 3 del mattino e lo trovavo ancora fuori, con i suoi amici. Indica Bruno. Così dicevo: a tutti quelli che trovo ancora qui alle 6 offro il cappuccino e la brioche, in cambio di qualche lavoretto.
A volte ce ne andavamo, dice Bruno, che se no venivamo messi a pulire tutto il salone. Altre volte invece, aspettavamo l’alba, lei ci offriva la colazione e poi ci faceva ramazzare, buttare i sacchi dell’immondizia o fare su e giù dalla cantina con le casse delle bibite. Però, la verità, e non lo dico solo perché è mia suocera, è che la sciura Maria è stata la seconda mamma per tutti noi.
Sai qual è il piatto che cucino più spesso, io? Mi dice Silvia.
La bresaola.
Bruno ride.
Nessuna di noi sorelle ama cucinare, odiamo i fornelli, è come se questa cucina ci avesse portato via nostra madre, dice Orietta, mentre Bruno mi fa vedere sul cellulare un video di Norberto Tarenghi, un musicista di San Giovanni Bianco, che veniva a suonare all’hotel tutti i capodanni.
Chissà se è ancora vivo.
Prova a cercare su Google.
Non esce niente.
Ho fatto la torta alle due creme, dice la signora Maria, prima di sparire di nuovo in cucina.
Con un tono di voce più basso Silvia mi racconta che l’hotel ha chiuso definitivamente il 30 settembre del 1997, era un martedì, la domenica prima c’era stato un pranzo di battesimo. I clienti erano andati diminuendo negli ultimi anni. L’affitto si era alzato. La proprietaria era diventata la moglie del Colleoni: voleva una cifra altissima, che non potevamo permetterci. È stato lì che mia mamma ha deciso di chiudere per sempre. È andata in depressione. Noi non ce ne siamo accorte, eravamo già grandi. Ce l’ha confidato il suo medico.
Il pensiero di farmi mantenere dai miei figli… La signora Maria è ritornata, con la torta, è come se avesse sentito quello che mi stava raccontando Silvia.
Per me era inaccettabile. Sono stata male, di un male che, non lo so. Stavo bene solo in casa, solo se non vedevo nessuno. Come vedevo una persona, mi prendeva un tremore, così, in tutto il corpo. Non dormivo più. Mi ricordo che un giorno, qui a casa, c’era mio nipote, il Marco, gli stavo portando il caffè, mi ha preso il tremore e ho rovesciato tutto il caffè sul pavimento. Era l’inizio dell’estate. Pochi giorni dopo ho seguito il consiglio del Don Giorgio, il parroco: mi ha detto, Signora Maria lei deve sparire, andare da un’altra parte, tra poco arrivano tutti i milanesi delle seconde case, e vorranno venire tutti a salutarla, tutti a parlare dell’hotel, del passato, di quello che è successo. Non ce l’avrei fatta. Così si è presentata l’occasione per dare una mano all’Isba. Io l’ho accettata. Me ne sono andata.
L’Isba era un grosso ristorante a Castelli Calepio, mi spiega Silvia.
E piano piano sono tornata a stare bene.

Siamo pronti per andare?
Finiamo il caffè e ci siamo.
Mamma, vuoi venire anche tu all’hotel?
No. Non riesco a vederlo così. Voi andate.
Sicura?
Sì.

III.
CIRCA DUE ANNI PRIMA

Il Bello dell’Usato, si chiama così il magazzino di mobili usati che ha creato Bruno. È a Gorle, vicino a Bergamo. Domani si festeggia l’inizio del 2020. Scatto una fotografia a una biscottiera a forma di torta, credo sia di ceramica. Poi a una borsa di pelle color amaranto, tavolini, lampade, sedute, complementi, vecchi libri, bicchieri, un grosso furgone, l’ufficio, il volto di Bruno. Quando torno a casa, sul cellulare, ho due ore di registrazioni che finiscono con lui che mi dice: Senti. Ho pensato che la storia da raccontare è quella di un hotel. Ci passavo tutte le estati. Ho conosciuto lì mia moglie. Lo gestiva sua madre, mia suocera, la signora Maria. Lasciami il numero, che una di queste domeniche organizziamo un pranzo su da lei, se non cade troppa neve.