Viaggio al termine della torre

Testo di Viola Bonaldi, Fotografie di Sonia Caravia

«Dove ci porti?»
«Voglio farvi una sorpresa».
La luce gialla comincia ad alzarsi, e con lei i nostri menti. Numeri diversi si illuminano ogni due secondi, uno alla volta. Due secondi, il tempo che scorre passando da un piano all’altro. 3, 5, 10, 12, 15. Il 18 prende luce. La porta dell’ascensore scorre facendo uscire noi e l’odore dolciastro di umanità che contiene. Da quassù il cortile è ampio come il palmo di una mano, e sembra che gli alberi abbiano perso la propria spinta verticale.

Saber estrae dalla tasca un mazzo di chiavi, piccolo rispetto alla sua altezza e alla vastità di porte che può aprire. La porta di sicurezza arancione oppone una prima resistenza, ma Saber è uomo che non ha fretta. Ecco finalmente la luce del sole, e la grande terrazza.
«Ho pensato che sarebbe stato bello farvi vedere Brescia da qua. Ogni tanto salgo per stare tranquillo, per pensare, si sta bene. Spero vi piaccia».

Saber è nato a Tunisi, ha 47 anni, e da meno di uno lavora come portinaio alla torre Cimabue, nel quartiere San Polo Nuovo, Brescia. A chiamarlo è stato Jamel, presidente del Centro Culturale Islamico della città, che aveva bisogno di un sostituto per un mese. Una persona di fiducia. Scaduto il periodo gli inquilini hanno chiesto che rimanesse, e così è stato. Qui alla torre sono in cinque a fare i portinai, di cui uno ciclicamente al turno di riposo; ogni turno dura cinque ore, e insieme coprono la fascia oraria dalle 5 del mattino all’1.30 di notte.

La sua parlata è lenta e morbida, e riflette la sua pacatezza d’animo. Le mani danzano in movimenti accoglienti, e quando si allontanano dal suo torace indicano il panorama che ci circonda. Da qui si vede tutto: la città e le sue Prealpi, le cave, l’autostrada, le industrie, l’acciaieria, il campo rom; la metro, le villette a schiera di San Polo, i suoi parchi, le torri Tiziano, Michelangelo e Raffaello più in giù.
La torre Tintoretto invece svetta di fronte a noi in modo egocentrico, diversa dalla Cimabue per le strisce colorate che nel suo caso sono orizzontali con i toni dell’arcobaleno, e per essere completamente disabitata. Per il resto, due torri di case popolari con nessun balcone, un ingresso, due ascensori, diciotto piani e 196 appartamenti.

San Polo è il quartiere più popoloso di Brescia con quasi 20.000 abitanti. Si trova a sud-est della città, e in sé racchiude San Polo nuovo, zona di urbanizzazione pubblica e parte di quel laboratorio sperimentale di urbanistica attuato dall’architetto Leonardo Benevolo, ispirato dalle tecniche europee in voga nei primi anni Settanta. Il disegno era semplice: un quartiere di villette a schiera di edilizia agevolata, ordinate, circondate da parchi, sovrastate dalle due torri esplose dalla terra, dal nulla. “Un’anomalia” la chiamano qui.

Inizialmente il comune assegnò gli appartamenti a moltissime famiglie della città; in seguito, a immigrati. Cinque anni fa la torre Tintoretto è stata svuotata e i suoi abitanti spostati al quartiere Sanpolino, in vista del prossimo abbattimento. Ora la torre è ancora qui – gigantesca, maledetta, stinta – nel suo limbo apparente, almeno fino a quando non verrà aperto il prossimo bando che deciderà la sua rinascita o la fine definitiva. Nel frattempo rimane tema utile politicamente, come simbolo di disfatta delle precedenti amministrazioni o punto programmatico di campagne elettorali.

La mano di Saber smette di indicare e arriva alla nuca, mentre la schiena si poggia al parapetto. «Ho conosciuto Brescia vent’anni fa. Dopo un po’ sono venuto a sapere che quelli che erano nel Carmine e da altri quartieri con dei problemi sociali, beh, la maggioranza di loro sono stati portati qua nelle torri. Perché proprio qua? Perché unire…».
Di slancio si abbassa, e con un dito delinea sul pavimento i contorni di una mappa che di tratto in tratto avanza dal suo stato invisibile.

«Ti racconto una cosa della Tunisia. Qua c’è la costa marittima – il dito si muove verso nord est – qua trovi i paesi e le città con imprenditoria, persone benestanti – rientra a sinistra – poi una serie di alberghi, i quartieri dei poliziotti e dei militari. Poi qua – ancora più a sinistra, iniziando a scendere – c’è il cuore del potere dove ci sono strutture pubbliche e industriali, poi il vuoto perché costa tanto, vanno solo certe persone. Poi qua – ancora un poco più giù – c’è una cintura, ci sono tutti i quartieri poveri. Questi la mattina si svegliano alle 5 e vedi una specie di invasione verso queste zone qua – risale verso destra – verso le aree industriali. Allora vedi, è una cintura di povertà fatta per proteggere in realtà tutto quello che è il cuore del potere. Capisci, io credo che qua sia una cosa simile, un esperimento sociale. Ed è stato un problema, un grosso problema, la miccia che ha fatto finire in questo modo le due torri. Dicono che buttano giù la Tintoretto ma non la buttano giù, perché dovrebbero farlo scusa, è a posto! E perché questa Cimabue no, visto che sono identiche? Sono in questa torre da solo un anno ma ho tante domande».

Una delle risposte sembra risiedere nella proprietà delle torri: la Tintoretto è nelle mani dell’ALER (Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziaria), mentre la Cimabue del Comune. E di nuovo, affari politici, arresti, giochi di tangenti.
«La gente ha paura di queste torri, se ne dice di ogni, e potrei raccontare tanto anche io. Ma bisogna sempre toccare, conoscere, vivere la gente che ci abita. Adesso si parla del touch, il touch è così, se non tocchi cosa è? Seguitemi, iniziamo la nostra discesa».

Dagli oblò entra molta luce, e il caldo – nonostante sia piena estate – non si sente troppo. Sui muri scritte in italiano, arabo, in francese elementare, rimandano ad amori appena nati o terminati; il tratto dell’indelebile, lo scorrere del tempo.

Je mourai por toi/autant 2 fois/qui sera necessaire/tu n’aura qu’as dire et je le farais.

Gli appartamenti iniziano al 16° piano; il 17° è per le cantine, e il 18° il balcone. All’ingresso di ogni pianerottolo una targa indica il numero di piano per non smarrirsi in questa verticalità del tutto identica: sedici livelli uguali a sé stessi, dodici appartamenti ciascuno, un corridoio a piastrelle bianche, piuttosto largo, porte grigie dalle quali provengono voci, rumori di passi, di tv e del vivere quotidiano. Qualcuno lascia la porta aperta, con il solo cancelletto basso per bambini a dividere l’ingresso dal corridoio.

«Sei qui con la tua famiglia?»
Saber tentenna, e apre con un “mmm”.
«Sono separato. Adesso sono solo qua, ma la famiglia c’è, ci sono anche i figli, però non viviamo insieme. Hanno 20 anni, poi 4 e 6. Sai, non faccio solo il portinaio. In Tunisia faccio il giornalista, lo faccio anche qui, scrivo di notizie d’interesse geopolitico, è anche per questo che mi faccio domande. Ultimamente mi sto interessando di storie di immigrati di provenienza araba. Però ho studiato geologia spaziale, una cosa del genere. È stupido, lo so!» dice scoppiando in una grossa risata.

La placca indica il numero quindici. Una nuova porta antincendio si apre sotto la spinta di Saber, che ci anticipa accogliendoci come un maître di sala, e ci introduce a Souad. Qui il nome di tutti è seguito dal piano di appartenenza; così si è presentata Souad, e così l’amica: «Baria, nono».

Entrambe frequentano il corso di sartoria tenuto nella Casa delle Associazioni al piano terra, accanto alla ludoteca; è stato avviato per fare uscire di casa le donne arabe, dopo aver notato che il loro compito si limitava alla cura di casa e famiglia. Souad è marocchina ed è in questa torre da sei anni, con marito e tre figli; Baria tunisina, in Italia dal 2005, anche lei ha seguito il marito fin qui dopo quasi vent’anni dalla partenza. Entrambe parlano un buon italiano, imparato sempre grazie ad un corso; l’hanno studiato per trovare lavoro, anche se ammettono che tra loro ogni tanto «scappa l’arabo».

«All’inizio non volevo venire a San Polo, avevo sentito parlare male del posto, ma ho voluto vedere, poi mi è piaciuto». A parlare è Baria, il volto circondato dal velo verde e nero, schiarito dalla veste floreale. «Il quartiere è bellissimo, ci sono i parchi, la metro, la scuola materna. L’unica cosa è che la casa è piccola, prima non avevo figli. Per questo non so se starò sempre qua. Al massimo ritornerò in Tunisia. Poi, per quello che si dice della torre, personalmente non ho niente problema. Esco di casa per lavorare, porto i bambini a scuola. Non ho problemi perché non vedo. Entro alle sei del pomeriggio perché sono stanca devo occuparmi del bambino, casa, compiti, non sento non vedo nessun problema. Rapporto con vicini benissimo, mio vicino non lo vedo, quindi. Non sento e non vedo – ripete – vivo la mia vita, non vedo».

«Anche per me all’inizio è stato difficile, perché abitavo vicino agli Spedali Civili», aggiunge Souad. «Ma qui c’erano problemi anche quando non c’erano gli stranieri».
Insieme parlano di episodi di vita comune in torre, dall’incontrarsi a lezione e di quella nuova famiglia che si è creata tra loro. I parenti veri li sentono via Skype, e sono contente così.
«Sì, di positivo è l’aver trovato amiche. Di negativo lo sporco, non so. Qui ci sono persone che non vogliono portare da basso la spazzatura, quindi la lanciano dalle finestre e una volta per poco non sono stata colpita da una bottiglia di vetro».
Baria annuisce.
«Pensa, l’altro giorno ero sul portone di casa, avevo poggiato la pattumiera poco lontano e sono tornata a chiudere a chiave. Sono tornata a prenderla e non c’era più, l’avevano lanciata giù. Questo è brutto, sì». Scale seguono scale, più si scende e più i piani si fanno più bui. Nei pianerottoli dei carrelli della spesa sono parcheggiati a ridosso del muro. Anche il fresco aumenta, così il viavai di gente e il rimbombo dei rumori.

«Gli inquilini si confidano tanto con me», dice Saber. «Mi era successa una cosa, non so se bella in realtà». Parla di una famiglia con un figlio bipolare e il padre assente. Quando ha il turno di notte il ragazzo raggiunge Saber in portineria, così non rischia di uscire con i coetanei e ubriacarsi: l’alcool altererebbe le funzioni dei suoi medicinali, causandogli crisi epilettiche. Una notte la madre s’era scordata che il portinaio era di riposo, ed ha lasciato uscire il figlio; il caos, la telefonata e il “devi venire subito” nel mezzo della notte.

«Alla fine cosa sono, non un portinaio, sono semplicemente una persona. Le ho chiesto perché ha chiamato me. Mi ha risposto perché il figlio si fidava solo di me. Questo è un’altra busta paga, basta. E lì dici ok, non prendo molto perché sono in una cooperativa sociale, ci sono lavori in cui posso venire pagato molto di più, ma almeno ho tempo di vivere, parlare, e c’è spazio per queste cose. Succedono».

I numeri indietreggiano. S’apre il sesto piano.
«Vi porto da una signora di 95 anni, bresciana. Speriamo di trovarla nella giornata giusta».
Svoltiamo a sinistra e percorriamo quella metà di corridoio in tutta la sua lunghezza. Nello spazio di quei metri scruto il pavimento alla ricerca di sporco, ma non ne trovo: «è martedì», mi interrompe Saber quasi capisse la mia intenzione, «quelli delle pulizie mandati dal comune sono passati ieri. Vieni tra due giorni, e non lo senti più questo odore di sapone».
L’edificio è asettico, freddo, ospedale senz’anima apparente: porte antincendio, maniglie a spinta, muri neutri, nessuna decorazione. Un’opera architettonica che affascina gli amanti del minimal, delle linee.

La porta è di fronte. Al campanello risponde un «Chi sif?» che anticipa Domenica e il suo deambulatore, il suo “compagno”. L’appartamento occupa il lato della torre che ne forma la sua larghezza, il suo fianco. Un rettangolo che per estremità ha due stanze da letto e il bagno, al centro la cucina, la finestra/oblò e il grande salone. L’arredamento dev’essere quello che ha portato qui ventitré anni fa, nel giorno della festa della donna, quando si è trasferita con la famiglia. In un angolo del salone la tv, di fronte la poltrona reclinabile adorata da Domenica, soprattutto mentre guarda film serali o ascolta il rosario alla Madonna di Lourdes, che dice essere uno spettacolo. L’italiano non lo parla, il bresciano è la sua lingua madre.

«Prima roba vi dico: sono ignorante, vecchia, ma leggo sempre il giornale, anche se lo chiamano “bugiardino”. Ho cominciato a 12 anni a lavorare, ho finito pochi anni fa di cucire a macchina perché la famiglia ha bisogno. A 95 anni ho la soddisfazione di non aver mai chiesto un prestito! Se avevo i soldi mangiavo, altrimenti mangiavo la minestra senza burro!».

Termina le frasi alzando il mento, con il fare di chi, in questo modo, riesce ad ottenere ragione. Mostra la fede che ha sul dito, “la era”, ricavata da 50 centesimi di lire dati al fabbro; non voleva iniziare una famiglia con i debiti per un anello. Sul muro un articolo di giornale celebra i cent’anni di sua madre; una targa invece “la nonna migliore del mondo”.

Domenica è una donna ferma nei suoi valori: risparmio, religione, lavoro. Oggi Saber non le ha portato il giornale, e la innervosisce. Racconta di aver avuto tre figli, uno morì a 18 anni a causa di un cortocircuito di una macchina su cui stava lavorando. Aveva trovato il lavoro in due giorni, appena uscito da scuola, e per questo gli avrebbero comperato un fucile per andare a caccia. «Dopo quindici giorni è morto. Pace. Ho guardato il mio Severino sul tavolo, l’ho ammirato e toccato, bravo com’era. Poi ho detto Signore, me l’hai dato e me l’hai tolto, tu sai il motivo, basta». Il caffè è pronto, e al ritorno dalla cucina l’argomento è cambiato, svoltato, come la morte stessa.

«A me piace vivere qui, sai? Voglio bene a tutti, e loro altrettanto: neri, bianchi, vecchi, bambini, mi chiamano nonna, sono dei gioielli. Prima quando riuscivo a camminare senza problemi facevo le punture a tutti, bisogna fare del bene nella vita. Una volta un signore giù in cortile mi ha chiesto se avessi intenzione di volere bene a tutti, anche ai neri – vedeva che mi dicevano ciao nonna. Diceva che lui li avrebbe bruciati tutti insieme ai vecchi. Non c’ho più visto. Io rispondo, sempre con rispetto ma rispondo sempre, e gli ho ricordato quel detto “scarpa grossa cervello fine”, e le sue scarpe erano belle, marroni e di pelle. È preso e se n’è andato. Ma cara te, ho la carogna addosso!».

I giornali locali scrivono di una situazione di altissimo degrado in torre, dai problemi personali, di convivenza, alla sporcizia esterna alla droga e prostituzione. In Casa delle Associazioni dicono che si tratta solo di spaccio “fisiologico”, e che questo non è un grosso problema; il disagio è dato dalla fermata della metro vicina, luogo di ritrovo dei ragazzi della zona che facendo tardi recano fastidio alle villette, dove risiede la maggioranza degli associati. Un contrasto evidente, paradossale, più o meno colpevole, più o meno conveniente.

«Da portinaio ne ho viste di cose sconvolgenti. Ma non voglio raccontarti di chi becco a farsi le pere, nemmeno del viavai di uomini, bisogna anche andare oltre. Per me c’è un’energia che tiene unito ‘sto posto. Io credo sia questo il segreto. Ho vissuto a Milano per due anni e non ho mai conosciuto nessuno dei miei vicini, capisci? La comunità. Bisogna conoscere le persone, entrare nelle case, scoprirle, non guardare e aiutare solo dall’esterno. Una notte ho guardato tutti i cognomi dei campanelli e ho fatto delle ricerche. Pensa, ci sono quarantacinque lingue diverse qua. Dall’Africa ci sono venti nazioni minimo, Senegal, Congo, Ghana, Tunisia, Egitto, Marocco… capisci? Dall’Europa Germania, Kosovo, Macedonia; e poi serbi, bosniaci, albanesi, russi, brasiliani, argentini, peruviani. Un mondo. Questo produce energia. Tra un’ora e mezza se vai ai piani inizi a sentire gli aromi, capisci la vita di cosa è fatta: aromi, colori. C’è un detto arabo che fa parla con ogni uomo, con la sua lingua. Secondo me lì consiste il segreto, ognuno viaggia sull’onda. Sali!».

Burkano è del secondo, lo incontriamo mentre sta trasportando la sua bicicletta a mano, su dalle rampe. Ha 14 anni, è serbo, ma vive nella torre da quando ha 3 anni. La nonna vive con la sua famiglia, tre fratelli e due sorelle, mentre lo zio in un altro appartamento della Cimabue. Racconta che era bello giocare a panchine in giardino, o a calcio con tutti gli altri ragazzini, ma anche che di sera i senzatetto dormono qui fuori e aprono i rifiuti lanciati dalle finestre. Per questo i bambini ora hanno paura di scendere a giocare.

Mentre parliamo un gruppo di ragazzi rientra da una gita in piscina organizzata dalla ludoteca. Burkano si vanta, scuote i suoi capelli castani e lancia vive occhiate. «Mi chiamano perché sono qui con voi, mi riempiranno di domande. Qui in realtà ci sono più vecchi che ragazzi, ma la gente mi piace, mi trovo d’accordo. È solo che alcuni sono un po’ matti. Una volta un tipo ha lanciato una bicicletta dall’undicesimo, io l’ho schivata per poco, sono scappato. Lo sai che non vanno nemmeno le telecamere? Sono negli alberi, dicono che sono controllate dalla polizia ma non è vero nulla».

Ci racconta poi di quello che vorrebbe fare da grande, il bodyguard, anche se ammette di dover lavorare molto a livello muscolare. Per il momento pensa alla scuola. «Ora vado a baita», e riprende la sua risalita verso casa, la “baita” in bresciano, mentre noi continuiamo verso la fine.

Al piano terra le piastrelle assumono toni diversi di grigio creando un’enorme scacchiera; le pareti sono tinte d’azzurre tagliate da grandi finestre a forma di mezzo cuore, un modo più eclettico per donare un po’ di luce in questo fine corsa così buio. Le caselle postali si susseguono, si rincorrono dentro e fuori dall’edificio; uno specchio stradale è appeso di fronte alla postazione di Saber, in modo da poter vedere chi entra e chi esce senza per forza scomodarsi.

Prima di chiudere l’ultima porta – quella che divide il suo mondo da quello degli abitanti della torre – ci parla di un documentario che ha in mente di fare, nella speranza di poter essere d’aiuto a chi intende trasferirsi in Italia; poi riprende posto nella sua scrivania come farebbe un giornalista, circondato da faldoni, carte, post-it, serrato in un quadrato di vetro, dietro gli schermi di vigilanza.

Saber estrae dalla tasca un mazzo di chiavi, piccolo rispetto alla sua altezza e alla vastità di porte che può aprire.
«La gente ha paura di queste torri, se ne dice di ogni, e potrei raccontare tanto anche io. Ma bisogna sempre toccare, conoscere, vivere la gente che ci abita. Adesso si parla del touch, il touch è così, se non tocchi cosa è?».
«Per me c’è un’energia che tiene unito ‘sto posto».
«C’è un detto arabo che fa parla con ogni uomo, con la sua lingua. Secondo me lì consiste il segreto, ognuno viaggia sull’onda. Sali!».

«Dove ci porti?»
«Voglio farvi una sorpresa».
La luce gialla comincia ad alzarsi, e con lei i nostri menti. Numeri diversi si illuminano ogni due secondi, uno alla volta. Due secondi, il tempo che scorre passando da un piano all’altro. 3, 5, 10, 12, 15. Il 18 prende luce. La porta dell’ascensore scorre facendo uscire noi e l’odore dolciastro di umanità che contiene. Da quassù il cortile è ampio come il palmo di una mano, e sembra che gli alberi abbiano perso la propria spinta verticale.

Saber estrae dalla tasca un mazzo di chiavi, piccolo rispetto alla sua altezza e alla vastità di porte che può aprire. La porta di sicurezza arancione oppone una prima resistenza, ma Saber è uomo che non ha fretta. Ecco finalmente la luce del sole, e la grande terrazza.
«Ho pensato che sarebbe stato bello farvi vedere Brescia da qua. Ogni tanto salgo per stare tranquillo, per pensare, si sta bene. Spero vi piaccia».

Saber estrae dalla tasca un mazzo di chiavi, piccolo rispetto alla sua altezza e alla vastità di porte che può aprire.

Saber è nato a Tunisi, ha 47 anni, e da meno di uno lavora come portinaio alla torre Cimabue, nel quartiere San Polo Nuovo, Brescia. A chiamarlo è stato Jamel, presidente del Centro Culturale Islamico della città, che aveva bisogno di un sostituto per un mese. Una persona di fiducia. Scaduto il periodo gli inquilini hanno chiesto che rimanesse, e così è stato. Qui alla torre sono in cinque a fare i portinai, di cui uno ciclicamente al turno di riposo; ogni turno dura cinque ore, e insieme coprono la fascia oraria dalle 5 del mattino all’1.30 di notte.

La sua parlata è lenta e morbida, e riflette la sua pacatezza d’animo. Le mani danzano in movimenti accoglienti, e quando si allontanano dal suo torace indicano il panorama che ci circonda. Da qui si vede tutto: la città e le sue Prealpi, le cave, l’autostrada, le industrie, l’acciaieria, il campo rom; la metro, le villette a schiera di San Polo, i suoi parchi, le torri Tiziano, Michelangelo e Raffaello più in giù.
La torre Tintoretto invece svetta di fronte a noi in modo egocentrico, diversa dalla Cimabue per le strisce colorate che nel suo caso sono orizzontali con i toni dell’arcobaleno, e per essere completamente disabitata. Per il resto, due torri di case popolari con nessun balcone, un ingresso, due ascensori, diciotto piani e 196 appartamenti.

San Polo è il quartiere più popoloso di Brescia con quasi 20.000 abitanti. Si trova a sud-est della città, e in sé racchiude San Polo nuovo, zona di urbanizzazione pubblica e parte di quel laboratorio sperimentale di urbanistica attuato dall’architetto Leonardo Benevolo, ispirato dalle tecniche europee in voga nei primi anni Settanta. Il disegno era semplice: un quartiere di villette a schiera di edilizia agevolata, ordinate, circondate da parchi, sovrastate dalle due torri esplose dalla terra, dal nulla. “Un’anomalia” la chiamano qui.

Inizialmente il comune assegnò gli appartamenti a moltissime famiglie della città; in seguito, a immigrati. Cinque anni fa la torre Tintoretto è stata svuotata e i suoi abitanti spostati al quartiere Sanpolino, in vista del prossimo abbattimento. Ora la torre è ancora qui – gigantesca, maledetta, stinta – nel suo limbo apparente, almeno fino a quando non verrà aperto il prossimo bando che deciderà la sua rinascita o la fine definitiva. Nel frattempo rimane tema utile politicamente, come simbolo di disfatta delle precedenti amministrazioni o punto programmatico di campagne elettorali.

La mano di Saber smette di indicare e arriva alla nuca, mentre la schiena si poggia al parapetto. «Ho conosciuto Brescia vent’anni fa. Dopo un po’ sono venuto a sapere che quelli che erano nel Carmine e da altri quartieri con dei problemi sociali, beh, la maggioranza di loro sono stati portati qua nelle torri. Perché proprio qua? Perché unire…».
Di slancio si abbassa, e con un dito delinea sul pavimento i contorni di una mappa che di tratto in tratto avanza dal suo stato invisibile.

«Ti racconto una cosa della Tunisia. Qua c’è la costa marittima – il dito si muove verso nord est – qua trovi i paesi e le città con imprenditoria, persone benestanti – rientra a sinistra – poi una serie di alberghi, i quartieri dei poliziotti e dei militari. Poi qua – ancora più a sinistra, iniziando a scendere – c’è il cuore del potere dove ci sono strutture pubbliche e industriali, poi il vuoto perché costa tanto, vanno solo certe persone. Poi qua – ancora un poco più giù – c’è una cintura, ci sono tutti i quartieri poveri. Questi la mattina si svegliano alle 5 e vedi una specie di invasione verso queste zone qua – risale verso destra – verso le aree industriali. Allora vedi, è una cintura di povertà fatta per proteggere in realtà tutto quello che è il cuore del potere. Capisci, io credo che qua sia una cosa simile, un esperimento sociale. Ed è stato un problema, un grosso problema, la miccia che ha fatto finire in questo modo le due torri. Dicono che buttano giù la Tintoretto ma non la buttano giù, perché dovrebbero farlo scusa, è a posto! E perché questa Cimabue no, visto che sono identiche? Sono in questa torre da solo un anno ma ho tante domande».

Una delle risposte sembra risiedere nella proprietà delle torri: la Tintoretto è nelle mani dell’ALER (Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziaria), mentre la Cimabue del Comune. E di nuovo, affari politici, arresti, giochi di tangenti.
«La gente ha paura di queste torri, se ne dice di ogni, e potrei raccontare tanto anche io. Ma bisogna sempre toccare, conoscere, vivere la gente che ci abita. Adesso si parla del touch, il touch è così, se non tocchi cosa è? Seguitemi, iniziamo la nostra discesa».

«La gente ha paura di queste torri, se ne dice di ogni, e potrei raccontare tanto anche io. Ma bisogna sempre toccare, conoscere, vivere la gente che ci abita. Adesso si parla del touch, il touch è così, se non tocchi cosa è?».

Dagli oblò entra molta luce, e il caldo – nonostante sia piena estate – non si sente troppo. Sui muri scritte in italiano, arabo, in francese elementare, rimandano ad amori appena nati o terminati; il tratto dell’indelebile, lo scorrere del tempo.

Je mourai por toi/autant 2 fois/qui sera necessaire/tu n’aura qu’as dire et je le farais.

Gli appartamenti iniziano al 16° piano; il 17° è per le cantine, e il 18° il balcone. All’ingresso di ogni pianerottolo una targa indica il numero di piano per non smarrirsi in questa verticalità del tutto identica: sedici livelli uguali a sé stessi, dodici appartamenti ciascuno, un corridoio a piastrelle bianche, piuttosto largo, porte grigie dalle quali provengono voci, rumori di passi, di tv e del vivere quotidiano. Qualcuno lascia la porta aperta, con il solo cancelletto basso per bambini a dividere l’ingresso dal corridoio.

«Sei qui con la tua famiglia?»
Saber tentenna, e apre con un “mmm”.
«Sono separato. Adesso sono solo qua, ma la famiglia c’è, ci sono anche i figli, però non viviamo insieme. Hanno 20 anni, poi 4 e 6. Sai, non faccio solo il portinaio. In Tunisia faccio il giornalista, lo faccio anche qui, scrivo di notizie d’interesse geopolitico, è anche per questo che mi faccio domande. Ultimamente mi sto interessando di storie di immigrati di provenienza araba. Però ho studiato geologia spaziale, una cosa del genere. È stupido, lo so!» dice scoppiando in una grossa risata.

La placca indica il numero quindici. Una nuova porta antincendio si apre sotto la spinta di Saber, che ci anticipa accogliendoci come un maître di sala, e ci introduce a Souad. Qui il nome di tutti è seguito dal piano di appartenenza; così si è presentata Souad, e così l’amica: «Baria, nono».

Entrambe frequentano il corso di sartoria tenuto nella Casa delle Associazioni al piano terra, accanto alla ludoteca; è stato avviato per fare uscire di casa le donne arabe, dopo aver notato che il loro compito si limitava alla cura di casa e famiglia. Souad è marocchina ed è in questa torre da sei anni, con marito e tre figli; Baria tunisina, in Italia dal 2005, anche lei ha seguito il marito fin qui dopo quasi vent’anni dalla partenza. Entrambe parlano un buon italiano, imparato sempre grazie ad un corso; l’hanno studiato per trovare lavoro, anche se ammettono che tra loro ogni tanto «scappa l’arabo».

«All’inizio non volevo venire a San Polo, avevo sentito parlare male del posto, ma ho voluto vedere, poi mi è piaciuto». A parlare è Baria, il volto circondato dal velo verde e nero, schiarito dalla veste floreale. «Il quartiere è bellissimo, ci sono i parchi, la metro, la scuola materna. L’unica cosa è che la casa è piccola, prima non avevo figli. Per questo non so se starò sempre qua. Al massimo ritornerò in Tunisia. Poi, per quello che si dice della torre, personalmente non ho niente problema. Esco di casa per lavorare, porto i bambini a scuola. Non ho problemi perché non vedo. Entro alle sei del pomeriggio perché sono stanca devo occuparmi del bambino, casa, compiti, non sento non vedo nessun problema. Rapporto con vicini benissimo, mio vicino non lo vedo, quindi. Non sento e non vedo – ripete – vivo la mia vita, non vedo».

«Anche per me all’inizio è stato difficile, perché abitavo vicino agli Spedali Civili», aggiunge Souad. «Ma qui c’erano problemi anche quando non c’erano gli stranieri».
Insieme parlano di episodi di vita comune in torre, dall’incontrarsi a lezione e di quella nuova famiglia che si è creata tra loro. I parenti veri li sentono via Skype, e sono contente così.
«Sì, di positivo è l’aver trovato amiche. Di negativo lo sporco, non so. Qui ci sono persone che non vogliono portare da basso la spazzatura, quindi la lanciano dalle finestre e una volta per poco non sono stata colpita da una bottiglia di vetro».
Baria annuisce.
«Pensa, l’altro giorno ero sul portone di casa, avevo poggiato la pattumiera poco lontano e sono tornata a chiudere a chiave. Sono tornata a prenderla e non c’era più, l’avevano lanciata giù. Questo è brutto, sì». Scale seguono scale, più si scende e più i piani si fanno più bui. Nei pianerottoli dei carrelli della spesa sono parcheggiati a ridosso del muro. Anche il fresco aumenta, così il viavai di gente e il rimbombo dei rumori.

«Gli inquilini si confidano tanto con me», dice Saber. «Mi era successa una cosa, non so se bella in realtà». Parla di una famiglia con un figlio bipolare e il padre assente. Quando ha il turno di notte il ragazzo raggiunge Saber in portineria, così non rischia di uscire con i coetanei e ubriacarsi: l’alcool altererebbe le funzioni dei suoi medicinali, causandogli crisi epilettiche. Una notte la madre s’era scordata che il portinaio era di riposo, ed ha lasciato uscire il figlio; il caos, la telefonata e il “devi venire subito” nel mezzo della notte.

«Alla fine cosa sono, non un portinaio, sono semplicemente una persona. Le ho chiesto perché ha chiamato me. Mi ha risposto perché il figlio si fidava solo di me. Questo è un’altra busta paga, basta. E lì dici ok, non prendo molto perché sono in una cooperativa sociale, ci sono lavori in cui posso venire pagato molto di più, ma almeno ho tempo di vivere, parlare, e c’è spazio per queste cose. Succedono».

I numeri indietreggiano. S’apre il sesto piano.
«Vi porto da una signora di 95 anni, bresciana. Speriamo di trovarla nella giornata giusta».
Svoltiamo a sinistra e percorriamo quella metà di corridoio in tutta la sua lunghezza. Nello spazio di quei metri scruto il pavimento alla ricerca di sporco, ma non ne trovo: «è martedì», mi interrompe Saber quasi capisse la mia intenzione, «quelli delle pulizie mandati dal comune sono passati ieri. Vieni tra due giorni, e non lo senti più questo odore di sapone».
L’edificio è asettico, freddo, ospedale senz’anima apparente: porte antincendio, maniglie a spinta, muri neutri, nessuna decorazione. Un’opera architettonica che affascina gli amanti del minimal, delle linee.

La porta è di fronte. Al campanello risponde un «Chi sif?» che anticipa Domenica e il suo deambulatore, il suo “compagno”. L’appartamento occupa il lato della torre che ne forma la sua larghezza, il suo fianco. Un rettangolo che per estremità ha due stanze da letto e il bagno, al centro la cucina, la finestra/oblò e il grande salone. L’arredamento dev’essere quello che ha portato qui ventitré anni fa, nel giorno della festa della donna, quando si è trasferita con la famiglia. In un angolo del salone la tv, di fronte la poltrona reclinabile adorata da Domenica, soprattutto mentre guarda film serali o ascolta il rosario alla Madonna di Lourdes, che dice essere uno spettacolo. L’italiano non lo parla, il bresciano è la sua lingua madre.

«Prima roba vi dico: sono ignorante, vecchia, ma leggo sempre il giornale, anche se lo chiamano “bugiardino”. Ho cominciato a 12 anni a lavorare, ho finito pochi anni fa di cucire a macchina perché la famiglia ha bisogno. A 95 anni ho la soddisfazione di non aver mai chiesto un prestito! Se avevo i soldi mangiavo, altrimenti mangiavo la minestra senza burro!».

Termina le frasi alzando il mento, con il fare di chi, in questo modo, riesce ad ottenere ragione. Mostra la fede che ha sul dito, “la era”, ricavata da 50 centesimi di lire dati al fabbro; non voleva iniziare una famiglia con i debiti per un anello. Sul muro un articolo di giornale celebra i cent’anni di sua madre; una targa invece “la nonna migliore del mondo”.

Domenica è una donna ferma nei suoi valori: risparmio, religione, lavoro. Oggi Saber non le ha portato il giornale, e la innervosisce. Racconta di aver avuto tre figli, uno morì a 18 anni a causa di un cortocircuito di una macchina su cui stava lavorando. Aveva trovato il lavoro in due giorni, appena uscito da scuola, e per questo gli avrebbero comperato un fucile per andare a caccia. «Dopo quindici giorni è morto. Pace. Ho guardato il mio Severino sul tavolo, l’ho ammirato e toccato, bravo com’era. Poi ho detto Signore, me l’hai dato e me l’hai tolto, tu sai il motivo, basta». Il caffè è pronto, e al ritorno dalla cucina l’argomento è cambiato, svoltato, come la morte stessa.

«A me piace vivere qui, sai? Voglio bene a tutti, e loro altrettanto: neri, bianchi, vecchi, bambini, mi chiamano nonna, sono dei gioielli. Prima quando riuscivo a camminare senza problemi facevo le punture a tutti, bisogna fare del bene nella vita. Una volta un signore giù in cortile mi ha chiesto se avessi intenzione di volere bene a tutti, anche ai neri – vedeva che mi dicevano ciao nonna. Diceva che lui li avrebbe bruciati tutti insieme ai vecchi. Non c’ho più visto. Io rispondo, sempre con rispetto ma rispondo sempre, e gli ho ricordato quel detto “scarpa grossa cervello fine”, e le sue scarpe erano belle, marroni e di pelle. È preso e se n’è andato. Ma cara te, ho la carogna addosso!».

I giornali locali scrivono di una situazione di altissimo degrado in torre, dai problemi personali, di convivenza, alla sporcizia esterna alla droga e prostituzione. In Casa delle Associazioni dicono che si tratta solo di spaccio “fisiologico”, e che questo non è un grosso problema; il disagio è dato dalla fermata della metro vicina, luogo di ritrovo dei ragazzi della zona che facendo tardi recano fastidio alle villette, dove risiede la maggioranza degli associati. Un contrasto evidente, paradossale, più o meno colpevole, più o meno conveniente.

«Per me c’è un’energia che tiene unito ‘sto posto».

«Da portinaio ne ho viste di cose sconvolgenti. Ma non voglio raccontarti di chi becco a farsi le pere, nemmeno del viavai di uomini, bisogna anche andare oltre. Per me c’è un’energia che tiene unito ‘sto posto. Io credo sia questo il segreto. Ho vissuto a Milano per due anni e non ho mai conosciuto nessuno dei miei vicini, capisci? La comunità. Bisogna conoscere le persone, entrare nelle case, scoprirle, non guardare e aiutare solo dall’esterno. Una notte ho guardato tutti i cognomi dei campanelli e ho fatto delle ricerche. Pensa, ci sono quarantacinque lingue diverse qua. Dall’Africa ci sono venti nazioni minimo, Senegal, Congo, Ghana, Tunisia, Egitto, Marocco… capisci? Dall’Europa Germania, Kosovo, Macedonia; e poi serbi, bosniaci, albanesi, russi, brasiliani, argentini, peruviani. Un mondo. Questo produce energia. Tra un’ora e mezza se vai ai piani inizi a sentire gli aromi, capisci la vita di cosa è fatta: aromi, colori. C’è un detto arabo che fa parla con ogni uomo, con la sua lingua. Secondo me lì consiste il segreto, ognuno viaggia sull’onda. Sali!».

«C’è un detto arabo che fa parla con ogni uomo, con la sua lingua. Secondo me lì consiste il segreto, ognuno viaggia sull’onda. Sali!».

Burkano è del secondo, lo incontriamo mentre sta trasportando la sua bicicletta a mano, su dalle rampe. Ha 14 anni, è serbo, ma vive nella torre da quando ha 3 anni. La nonna vive con la sua famiglia, tre fratelli e due sorelle, mentre lo zio in un altro appartamento della Cimabue. Racconta che era bello giocare a panchine in giardino, o a calcio con tutti gli altri ragazzini, ma anche che di sera i senzatetto dormono qui fuori e aprono i rifiuti lanciati dalle finestre. Per questo i bambini ora hanno paura di scendere a giocare.

Mentre parliamo un gruppo di ragazzi rientra da una gita in piscina organizzata dalla ludoteca. Burkano si vanta, scuote i suoi capelli castani e lancia vive occhiate. «Mi chiamano perché sono qui con voi, mi riempiranno di domande. Qui in realtà ci sono più vecchi che ragazzi, ma la gente mi piace, mi trovo d’accordo. È solo che alcuni sono un po’ matti. Una volta un tipo ha lanciato una bicicletta dall’undicesimo, io l’ho schivata per poco, sono scappato. Lo sai che non vanno nemmeno le telecamere? Sono negli alberi, dicono che sono controllate dalla polizia ma non è vero nulla».

Ci racconta poi di quello che vorrebbe fare da grande, il bodyguard, anche se ammette di dover lavorare molto a livello muscolare. Per il momento pensa alla scuola. «Ora vado a baita», e riprende la sua risalita verso casa, la “baita” in bresciano, mentre noi continuiamo verso la fine.

Al piano terra le piastrelle assumono toni diversi di grigio creando un’enorme scacchiera; le pareti sono tinte d’azzurre tagliate da grandi finestre a forma di mezzo cuore, un modo più eclettico per donare un po’ di luce in questo fine corsa così buio. Le caselle postali si susseguono, si rincorrono dentro e fuori dall’edificio; uno specchio stradale è appeso di fronte alla postazione di Saber, in modo da poter vedere chi entra e chi esce senza per forza scomodarsi.

Prima di chiudere l’ultima porta – quella che divide il suo mondo da quello degli abitanti della torre – ci parla di un documentario che ha in mente di fare, nella speranza di poter essere d’aiuto a chi intende trasferirsi in Italia; poi riprende posto nella sua scrivania come farebbe un giornalista, circondato da faldoni, carte, post-it, serrato in un quadrato di vetro, dietro gli schermi di vigilanza.