Archive for Maggio, 2018

Le dita sulla città – Una guida cieca a Venezia

Quando giro l’angolo della calle, Anna sta uscendo dal portone di casa sua, i corti ricci color rame illuminati da un sole che sembra di fine inverno, sugli occhi un paio di occhiali scuri, quasi rotondi. Ci si riflette dentro il canale su cui si affaccia il palazzo da cui è appena apparsa.

L’appuntamento è nel sestiere di Cannaregio, in prossimità del Ghetto. Anna ha un saluto squillante. Mentre si avvicina, spiega che non riusciva a trovare – non è la prima volta – il bastone da passeggio che usa abitualmente, quindi oggi andremo in giro con quello che sta impugnando. Lo dice un po’ scocciata mentre lo oscilla piano sui masegni davanti a sé, calibrando i passi con una pazienza regale. Infila la mano nell’incavo del mio braccio. «Allora – l’intonazione della frase fa un’impennata giocosa – cosa vuoi sapere di me?».

Anna è veneziana, ha 65 anni ed è cieca. Da alcuni mesi, opera come guida al patrimonio a cielo aperto della città sull’acqua. A coinvolgerla in questa veste, un evento collaterale del Padiglione Catalano all’ultima Biennale: «L’artista Antoni Abad ha convocato l’Unione Ciechi per realizzare BlindWiki, una mappatura sonora della città che non si vede. Ma, soprattutto, della città che non si vede più»sottolinea la parola, «la Venezia sparita. Qui facciamo il ponte».

Nelle parole di Anna, le indicazioni giungono come un intercalare discreto, sempre puntuale rispetto a dove ci troviamo. L’oscillazione continua del bastone le suggerisce la fine della gradinata, prepara con cautela il piede alla discesa.

Anna è veneziana, ha 65 anni ed è cieca. Da alcuni mesi, opera come guida al patrimonio a cielo aperto della città sull’acqua.

«Alla fine, mi sono trovata a essere l’unica veneziana cieca nata e cresciuta in città. Questo ha destato molta curiosità, perché le persone vedenti spesso non considerano l’aspetto artigianale di Venezia, di questa città completamente fatta a mano. Per esempio, una cosa che mi piace molto è la pietra d’Istria. Questa pietra bianca, bellissima. Si trova un po’ dappertutto, nei pozzi, lungo gli angoli dei palazzi, sui davanzali delle finestre». Rivolge il dito sottile verso ciò di cui sta parlando, che sembra apparire sornione alla sua menzione. «Faccio soprattutto riflettere su tante cose che la gente non vede».

Anna è nata con una grave forma di ipovisione – due retine di colori sbiaditissimi, i profili delle cose sfumati in una nebbia fittissima. Ma la sua Venezia ha forme e dimensioni precise, tradite occasionalmente solo dall’urto imprevisto contro i tavolini di qualche plateatico nato da troppo poco e in modo troppo poco normato per esserle noto. Mentre racconta la sua infanzia, la sua voce insiste leggermente su alcune vocali, con incedere fiabesco. «Sono nata all’arsenale militare. Proprio dentro, perché mio papà era in Marina. Io da bambina ero ipovedente grave, vedevo pochissimo. Il fatto di conoscere bene Venezia è dovuto alla pazienza, alla costanza di un fratello di mia madre». Tira lievemente verso una calle un po’ nascosta.

«Per darmi più autonomia, mio zio faceva una cosa molto particolare: oltre a leggermi tantissimi libri storici, come i diari del Molmenti, mi portava in giro per la città. Camminare, camminare, camminare. Continuamente. Mi leggeva i nomi dei nizioleti, sai cosa sono? Le targhe delle calli. E poi, mi faceva toccare». Lo scandisce quasi per sillabe. «Toccare le cose per farmele capire».

Una comprensione costruita con le dita, i polpastrelli a scorrere per tutta la vita contro tutte le cose: «Mio zio, leggendo tantissimo, sapeva dov’erano le cose belle da vedere. Anche all’interno dei palazzi. Suonava proprio il campanello alle persone e chiedeva posso far entrare mia nipote che non ci vede? Le fa toccare il pozzo? Le fa toccare il portale? Mi faceva toccare qualsiasi cosa: altorilievi, balaustre, ponti. Adesso qui giriamo. Attenzione, è una calle un po’ stretta».

«Le persone vedenti spesso non considerano l’aspetto artigianale di Venezia, di questa città completamente fatta a mano».

Una ragazza che viene dalla direzione opposta alla nostra nota il bastone di Anna e si appiattisce contro il muro per farci passare vicine fino a una lunga fondamenta poco battuta, scaldata dal sole. Ci arriva addosso una corrente fredda e gentile. «Senti che arietta da nord. Così si asciugheranno le lenzuola che ho steso». Mentre Anna racconta, qualcuno dal canale avvia una barca a motore con un rombo al cherosene. La mia guida si tura il naso con delicatezza teatrale: «Questa barca ha il motore leggermente ingolfato! Portarla subito a controllare!».
Catalogati in una mappa ampia e precisa, in assenza della vista suoni e odori costituiscono una fonte di orientamento fondamentale e preziosa, latitudine e longitudine su cui fissare la posizione di palazzi, chiese, abitazioni.

«Quando da bambina giravo da sola, quello che mi faceva capire che dovevo svoltare o che ero arrivata erano gli odori». Per andare a trovare sua nonna, l’odore delle salsicce appese da un salumiere stava a segnalare la prima svolta, la seconda all’altezza del profumo di formaggi freschi di una latteria. «Lì dovevo continuare dritta fino a un negozio di baccalà. E io così mi orientavo».

Nei suoi ricordi, al profumo del pane portato alle rivendite in barca nel primo mattino si accompagna quello della polenta arrostita attraverso le calli all’alba, insieme all’odore intenso di frutta e verdura. «Adesso, quando scendi dal ponte di Rialto, trovi solo negozi di quelle che chiamano specialità veneziane, ma in effetti è paccottiglia da due soldi. Quando ero piccola, c’erano banchi di frutta e verdura a destra e salumi e formaggi a sinistra. E i venditori parlavano continuamente della loro merce. Vara che bei! Vara che boni! I carciofi di Sant’Erasmo, le castraure! E le donne veneziane, soprattutto nei sestieri più popolari, quando facevano i lavori di casa tenevano sempre le finestre aperte e le sentivi cantare. Oggi, i suoni hanno avuto una trasformazione incredibile. Quello che rimane di molto bello sono le campane. La prima che senti al mattino è la Marangona, quella di San Marco. Don! Don!». Anna cerca di imitarne il suono, la nota è così bassa che la voce le esce a fatica. «Però c’è anche molto più silenzio. L’ho fatto notare anche ad altri veneziani e mi hanno dato ragione. Tutti più educati, sicuramente. Ma c’è anche una perdita di identità in questo».

«E le donne veneziane, soprattutto nei sestieri più popolari, quando facevano i lavori di casa tenevano sempre le finestre aperte e le sentivi cantare»

Arriviamo in un campo largo, dove troneggia una chiesa il cui campanile diffonde un’eco orientale. «La Chiesa della Madonna dell’Orto. Qui dentro c’era la famosa Madonna del Bellini, che se la son rubata». La compostezza di Anna si rompe in un moto di indignazione: «Non è più stata trovata. Era una meravigliosa madonna, più o meno di questa dimensione – allarga di poco le braccia – perché l’ho toccata, senza nessun allarme. E se la sono portata via. Inevitabile. Sai che dietro la chiesa cresceva una pianta di fichi?».

Anna inizia a snocciolare una serie di informazioni botaniche, lanciandosi in una dissertazione sulla riscoperta del melograno e sulla morte di molte magnolie nei giardini privati veneziani. Ci tiene a segnalare che la più antica di Venezia è quella piantata nel suo giardino, la sua voce corre insieme al rumore leggero tracciato dal suo bastone sul selciato. Passeggiando, sembra dimenticarsi di una stretta rientranza della fondamenta necessaria per la salita in barca, dove alcuni gradini conducono direttamente dentro l’acqua. Quando se ne rende conto, si scosta e riprende a camminare con la sicurezza di poco prima. La competenza con cui si muove renderebbe plausibile immaginarla girare da sola in città.

«Solo alla mattina molto presto. Una volta potevi girare a tutte le ore e non ti succedeva niente, ora non è più la Venezia di una volta. Ed è anche diventata una città piuttosto invivibile, dove il turismo ha dilagato in maniera esponenziale. Il che non fa bene alla città, ma neanche al turista. Perché diamo un servizio non sincero, non veritiero. E questo è molto brutto».

La voce di Anna si appiattisce all’improvviso. «Siamo arrivate ai portici dell’Abbazia. Lo capisco da com’è cambiato il suono della mia voce». Un porticato di colonne in mattone è l’anticamera al campo davanti a una chiesa gotica: «Per terra puoi vedere uno dei pochi pavimenti rimasti in cotto veneziano, disposto a spina di pesce. E c’è anche un pozzo con dei meravigliosi altorilievi, li ho toccati tutti. Senti, ti volevo chiedere: sei mai stata sulla terrazza del Fontego dei Tedeschi? Proviamo a vedere se ci fanno entrare!».

L’altana sopra al discusso centro commerciale di lusso aperto in città da poco più di un anno diventa la nuova meta della passeggiata, scandita dalle descrizioni entusiaste rivolte a ciò che ci circonda: un ponte privo di spallette – unico esemplare rimasto in città a testimoniare la natura originaria dei ponti veneziani – precede il vociare crescente lungo Fondamenta San Felice, a cui Anna sembra non prestare attenzione, salvo poi commentare con aria divertita la qualità dei discorsi che ha ascoltato.

Di voci nella sua vita ne ha sentite moltissime, avendo conseguito il diploma di centralinista al Collegio dei Ciechi di Padova, per poi iniziare a lavorare ancora diciassettenne a Reggio Emilia. Mi spiega che a Venezia è tornata anche per dare al figlio Fulvio la possibilità di crescere in una città diversa da tutte le altre: «Amo la pietra, il sole, il vento. L’acqua. Venezia è la mia città. Alcuni a volte mi dicono che ce l’ho tutta in testa, che sono meglio di Google Maps. Il fatto è che la amo profondamente».

Il percorso sbuca in Strada Nova, una delle principali arterie della città, attraversata dal brulichio turistico del primo pomeriggio. Il flusso di persone intorno a noi è aumentato di molto, ci sciama intorno con scarso riguardo. Dopo quasi trent’anni di sapiente convivenza con la cecità, è in parte difficile misurare dall’esterno quanto Anna senta la mancanza della vista. La risposta arriva senza esitazione: «Da molto tempo non mi manca più. A volte, però, mi capita di dover chiedere chiarimenti. Per esempio, qui c’è un odore intenso di patatine fritte, e kebab anche. Ma io so che qui c’era un negozio di scarpe».

La folla crescente ricorda il preludio ai festeggiamenti di carnevale, uno dei momenti dell’anno in cui la città si fa più invivibile. «Da quando è diventata una questione poco veneziana e tanto di business, Venezia è diventata impraticabile. Chiaramente, conservo anche dei ricordi belli. Quando lavoravo in banca, un anno chiedemmo al direttore se potevamo andare a lavoro in maschera, e lui accettò. Indossavo un bellissimo abito da dama stile Settecento con tanto di parrucca, prestato da un’amica di mia mamma. Avevo letto la storia di una cieca veneziana che si era fatta fuori al gioco i soldi del Conte Sagredo: siccome mi piace scherzare, mi portai anch’io un bussolotto con due grossi dadi per giocare a tutto o niente, un vecchio gioco veneziano. Quando qualche cliente si complimentava per il costume lo sfidavo, proponendogli una partita a dadi contro di me».

«Qui c’è un odore intenso di patatine fritte, e kebab anche. Ma io so che qui c’era un negozio di scarpe»

L’arrivo al Fondaco ha il colore di un imponente palazzo bianco a pochi passi dal Ponte di Rialto: a testimoniare la sua vita precedente, la grande scritta Poste e Telecomunicazioni in metallo intatta sulla facciata. Poco dopo l’ingresso, un’ampia corte circondata sui quattro lati da tre piani a vista, illuminati da un sistema di faretti che gettano fasci di luce aggressiva. «Potrei essere al Cortes Inglés o in qualsiasi altro centro commerciale. Lo senti in particolare dalla musica, che è la stessa dappertutto».

Le indicazioni molto precise fornite per raggiungere la terrazza all’ultimo piano sfumano man mano che Anna inizia a cogliere i cambiamenti fisici occorsi intorno a lei. Dopo un attimo di confusione si fa interdetta e poi seccata, fino a chiudersi in uno sdegnato mutismo, che rompe solo qualche istante dopo aver trovato l’ascensore. Sbuchiamo in una sala con una corta scala di legno.
Si è fatto un po’ nuvoloso, ma l’aria è tersa e la vista che domina l’intera città si estende nitida sino alle cime pulite delle montagne, srotolando un tappeto di rettangoli rossi e bianchi che sembrano coriandoli. Anna ritrova lo slancio.

«Vieni, ti faccio vedere la tavola in braille». Oltre il parapetto, una lastra di metallo riporta il profilo di tutto ciò che abbiamo davanti. Anna ci appoggia sopra una mano e inizia a parlare più velocemente, le dita in un moto minuto e continuo. L’increspatura dei rilievi le suggerisce in che direzione rivolgere il viso.

«Ecco, vedi, vedi? Qui ci sono i disegni. Poi ci sono le scritte, che ti dicono tutto quello che hai davanti. Sono talmente piccole che ci vorrebbe la lente di ingrandimento nelle dita, però per me è bellissimo qui. È il braille americano, scritto a lettere in rilievo. Hanno fatto una cosa simile a Castel Sant’Elmo a Napoli. Puoi toccare il Golfo di Napoli, hai davanti tutte le varie isole, Capri, Ischia. È molto bello qui sopra. Ti dà questa sensazione di aperto, di spazio. Vedi? Qui hai un campanile».
Insiste sul disegno con l’indice con gesto lieve e metodico. Il medio sembra sondare piano le distanze da un palazzo vicino.

Carta da riciclare

Non si può immaginare. In questo grigio lembo di pianura romagnola, corrotta dalla cementificazione ma perfettamente limpida per lo spietato algoritmo di Google Maps, fra carrozzieri, officine, un consorzio agrario, ricambi di automobili, una torrefazione e una bigiotteria, sorge un capannone altrettanto anonimo ma che contiene un piccolo tesoro. Almeno per quanti – sempre di meno – amano leggere.

Sono più di diciotto milioni i libri censiti che abitano la pancia del magazzino di Stock Libri, gruppo Messaggerie, a Santarcangelo di Romagna. Non un cimitero, ma un’ultima spiaggia per ventimila titoli meno fortunati che, nel panorama editoriale italiano, non sono riusciti a trovare una casa e sono stati dichiarati fuori catalogo dagli editori. Una rotazione media di due anni, prendere o lasciare, prima di finire al macero per un valore fino a sessanta euro a tonnellata, in base al prezzo del petrolio e di altri accidenti finanziari. Se in libreria vi è capitato di acquistare qualche opera a metà prezzo, è probabile che venisse da qui dove il libraio può ricomprarli al 75% di sconto e rivendere al 50%. Gli stock – approssimativamente – vengono ceduti a Stock Libri al 2 o 3% del prezzo di copertina.

Sono più di diciotto milioni i libri censiti che abitano la pancia del magazzino di Stock Libri, gruppo Messaggerie, a Santarcangelo di Romagna.

Se avete incrociato i primi volumi fondamentali nelle silenziose e polverose biblioteche statali, quando ancora vigeva un’austerità formale e lì avete, un mattoncino alla volta, indicato la rotta del vostro privato umanesimo; se distrattamente, come il sottoscritto, prendevate un tomo o un volumetto a caso o consigliato per erigere la vostra storia di persona; se leggere una narrazione intrigante o un concetto affine al vostro sentire l’avete vissuto alla medesima stregua di un incontro importante, che vi ha migliorato la vista e rimosso dalla solitudine; se almeno una volta avete salvato da una bancarella un libro che avevate letto non sopportando di vederlo lì; bene, se tutto ciò vi è capitato, avrete poca voglia di sentirvi parlare di quote di mercato.

Ma esistono, ed è necessario ricordare che la saggezza ha a che fare con l’esperienza, che dietro a un’edizione non esiste solo il suo autore. Per quanti hanno cercato nel libro un luogo intimo della coscienza, questo spazio di tredicimila metri quadri, alto nove metri e lungo quattrocento, con dodicimila pallet stipati di libri, può risultare attraente e ripugnante. Viene voglia di abbracciarli, i libri, di sfogliarli e di rotolarcisi sopra in un delirio dionisiaco, in un rito sacro che incoraggi l’osmosi per assorbire ogni testo. Ho voglia di fregarmi anche quelli a me indigesti, perfino un Pansa o le tante edizioni di Faletti acquisiscono un valore intrinseco.

Allo stesso modo però mi accorgo che lo spazio e il tempo non sono quelli giusti, le fredde scaffalature, gli imballaggi, i muletti, gli uomini che vi lavorano con radioline, palmari e carrelli, tutto propugna l’essenza mercantile dell’oggetto. Qui la fisicità non ha a che fare con il pensiero o l’artigianato, i libri non sono catalogati in base al genere o all’editore, l’unica distinzione è la posizione. È l’altro lato della medaglia (o della luna) e, di questi tempi di vacche magre per l’editoria, forse il più spinoso.

Le fredde scaffalature, gli imballaggi, i muletti, gli uomini che vi lavorano con radioline, palmari e carrelli, tutto propugna l’essenza mercantile dell’oggetto.

Dopo un labirinto di uffici di varie società, vengo accolto in una sterile saletta con aria condizionata, dentro all’enorme prefabbricato: davanti a un tavolo siedono tre distinti uomini impegnati con le loro carte. È dove il lato romantico precipita. Qui si hanno altri importanti punti di vista: mi trovo nella zona imperscrutabile della catena alimentare di un lettore. Senza dilungarsi troppo su qualifiche e competenze, che ci vorrebbero tre cartelle, da destra a sinistra ho: l’AD Fastbook/AD Stock Libri, Marco Mattioli in camicia bianca; chi amministra il portafoglio, Maurizio Rosa in camicia azzurra; l’editore/AD di qualcosa, Maurizio Caimi in Lacoste rosa. In pochi minuti mi sento chiamare come una potenziale band (“Punkarov”), uno scienziato (“Pavlov”) e un possibile ansiolitico (“Pakranol”). Affiora allora quella strana inquietudine che si prova la prima volta che si passeggia per Manhattan, in cui si può percepire il potere lì a due passi ma ne senti anche irradiare la complessità e il suo essere inscalfibile.

Il mio background, spontaneamente, al primo sguardo vorrebbe che li additassi come canaglie insensibili ma il discorso è tutt’altro, gira ad altri livelli. Mattioli: «Si leggono i libri perché c’è una pluralità di offerta, la domanda è sempre più segmentata: in Italia si pubblicano circa quarantacinquemila novità l’anno (secondo l’Associazione Editori Riuniti sono sessantaseimila, ndr). Quello che non si vende potenzialmente lo ritiriamo noi. L’editore non è obbligato a darcelo, noi abbiamo costruito un tessuto di librerie che si occupa di metà prezzo che si mescola all’usato (per esempio Libraccio, ndr). I libri possono andar male per tanti motivi, un prezzo troppo alto, il momento sbagliato, la copertina o semplicemente sono brutti».

Credo che ci sia un momento nella storia di ogni libro – per l’autore (di sicuro) e per l’editore (un po’ meno) – in cui la sua buona riuscita diventi una questione di vita o di morte, e tutti gli sforzi sono ad essa dedicati. Poi, generalmente, arriva la disillusione, si affievoliscono le tensioni e s’intende che la realtà che si voleva dominare era zeppa di vettori, che si sta in alto mare nella tempesta e c’è bisogno del porto sicuro della quotidianità, con i soliti nomi, certi colleghi e l’umido da buttare.

Mi viene riportato dei primi tascabili degli anni Cinquanta, di un’Italia ancora incapace economicamente e per poca istruzione di assorbire certi volumi, il Boom, l’aumento delle pubblicazioni. Sarà per la situazione all’improvviso diventata amichevole che mi emoziono anch’io a sentire certi numeri, come se a suo tempo avessi fatto parte dell’ambasciata, facendoci la grana. Ma poi mi cadono gli occhi sui miei appunti e slaccio la camicia: ad oggi per ogni cento copie, specialmente per i piccoli editori, una cinquantina in media torna indietro. A quel punto l’editore deve decidere se gonfiare il magazzino, macerarle o cederle, solo però dopo la cancellazione del codice a barre (ISBN) dall’albo degli iscritti. Quel momento luminoso di storia dell’editoria del Novecento si liquefà definitivamente con Caimi: «Non c’è un criterio specifico per l’acquisto dei fuori catalogo, i libri che pensiamo di vendere meglio li paghiamo un po’ di più, ma nove volte su dieci ritiriamo l’intero stock. Prendiamo da dieci copie a ventimila. Ci sono stock che non compriamo a priori, la fatica supera il piacere, noi abbiamo un mercato che ha delle regole che bene o male conosciamo, malgrado sia sempre in evoluzione. Il nostro problema è che dobbiamo vendere i libri che gli altri non sono riusciti a vendere»Seguono pesanti secondi di silenzio assoluto, rotto da un telefono che squilla e dal cinismo maligno dell’imprenditore cha sa dove far male: «In fondo non valgono niente, è carta sporca».

I numeri di Stock Libri sono impressionanti: ricolloca una media di sette, ottomila libri al giorno senza diritto di resa.

Non esattamente. I numeri di Stock Libri sono impressionanti: ricolloca una media di sette, ottomila libri al giorno senza diritto di resa, nell’ultimo Natale ne hanno venduti fino a venticinquemila ogni ventiquattro ore, massimamente nelle librerie online. Ciò è dovuto anche al fatto di avere tanti titoli che un editore non potrebbe gestire, vista la richiesta frastagliata, magari di tre copie per titolo. Mattioli: «I fuori catalogo si potrebbero immaginare come delle fregature, ma dall’e-commerce i risultati sono eclatanti. Il patron di Messaggerie, Luciano Mauri, mi diceva sempre: Si ricordi che i magazzini di libri sono come il gas, come li apri si riempie tutto. Adesso c’è un’altra cultura che è più feroce, specialmente per i piccoli. Se i piccoli non vendono, rimettono sul mercato una novità e incassano dei soldi (le copie fresche di stampa che il distributore ritira dall’editore e paga a centoventi/duecentodieci giorni, ma a cui però seguiranno le rese, le copie non vendute, che verranno scalate dal pagamento. Un buco che può essere parzialmente tappato con un altro titolo da stampare, quindi altro pagamento e altre rese, ndr). È un percorso che li porta verso l’abisso. Nel ’75 c’erano cinquemila novità all’anno, c’erano dei librai che fra marito e moglie se ne leggevano parecchi; oggi con tanti titoli e la rotazione, è impensabile. Tuttavia sta nascendo una nuova generazione: nei loro punti vendita prendono ciò che conoscono, lo comprano e sono bravissimi a vendere. Ovviamente avranno pure i primi dieci libri in classifica, ma anno dopo anno questa categoria di commercianti sta crescendo e si distingue».

Com’era? Tre cose da fare nella vita: piantare un albero, fare un figlio e pubblicare un libro. Se mi guardo attorno ormai conosco più gente che ha pubblicato che procreato. Se una volta pubblicare diventava una questione d’orgoglio, una sofferenza risolta, il raggiungimento di un obiettivo prestigioso, oggi anche grazie al self-publishing o a questo pompaggio forzato degli editori pronti a tirar fuori novità per coprire le rese ingrassando il business degli stock, per la maggior parte degli autori è una speculazione sulla vanità, un accadimento poco meditato. Sono diminuiti i manoscritti nel cassetto ma aumentano le frustrazioni dei geni incompresi che non vengono letti o recensiti che si guardano l’ombelico, che sui social inveiscono contro la conduttrice radiofonica “radical chic” che non li degna di attenzione. Ma questa è un’altra storia di cui già conoscete le coordinate, in cui si pubblica ma non si legge.

Maurizio Caimi, quello in Lacoste rosa, è il figlio del fondatore di Stock Libri, colui che iniziò questo commercio comprandosi il magazzino dei tascabili della vecchia BUR di Rizzoli. È un simpatico farabutto che si diverte a buttarla in caciara, aspetta la mia reazione quando mi provoca asserendo che per lui i libri sono come patate, e fa partire delle grasse risate a cui però io mi accodo rumorosamente, con la speranza che mi offra un lavoro dignitoso. Poi Mattioli torna a guardarmi fisso, a parlarmi lentamente con il tono leggermente paternalistico di chi si adopera con pazienza per chiarire il proprio punto di vista allo studente indisciplinato. E non è facile, perché il successo di un titolo, pare, è questione di chimica ed esoterismo allo stesso tempo. E racconta di alcuni libri da lui commercializzati per Mondadori che non sono andati come dovevano, malgrado le aspettative. Ne parla amareggiato come di sconfitte, per uno abituato a vincere.

«In un comitato editoriale, forse di febbraio 2003, il nostro editor porta un libro, si chiamava The Da Vinci Code, e davanti a trenta persone ci dice che è primo sul New York Times Book Review. Costava cinquantamila dollari. Qualcuno afferma che è una stupidata di libro e che noi eravamo interessati alle classifiche Publishers Weekly, che all’epoca era un po’ la Bibbia. Torno in ufficio e mi arriva sulla scrivania PW e al primo posto c’è Dan Brown, allora rivado dal mio capo per mostrarglielo. Erano le 2 di pomeriggio quando s’è scatenata l’asta, l’abbiamo chiusa alle 19,30 per 380.000 dollari».
Esclamo: «Regalato!».
«Col senno del poi! Voglio vedere lei dormire la notte dopo aver pagato un libro 380.000 dollari. Significa che deve vendere almeno 250.000 copie. A cascata il problema della piccola editoria è che si devono anticipare dei soldi che faticano a rientrare perché, da una parte c’è il costo del distributore, quello della resa, dall’altra quello di produzione delle novità. Quando l’editore va in stampa ha già pagato tutto, la traduzione, il grafico, la copertina». Domando se fra cinquant’anni ci saranno ancora posti come Stock Libri e la risposta è di un pragmatismo totalizzante: «Non ci saremo né lei né io».

Maurizio Rosa, il più silenzioso e quindi – secondo le mie nozioni di politica estera – il più pericoloso, mi sciorina qualche dato su come il libro cartaceo qualche anno fa sembrava spacciato ma che ora la carta viene sempre rivalutata. Poi torna a scrutarmi sornione col volto diafano, come presentisse il mio sangue e aspettasse il momento giusto per una zampata. Forse esagero, ma resta un tipo sospetto. Appena azzardo al fatto che il distributore (preciso che non è comunque il lavoro di Stock Libri) è quello che tiene il banco, che guadagna sia sui i resi che sulle vendite, vengo stoppato da Mattioli: «Se io distribuisco centocinquanta e me ne tornano settantacinque, io vengo pagato su quest’ultimi, per il distributore è una sciagura atomica perché quei settantacinque di resa non sono esattamente remunerati come il fornito, hanno delle franchigie. Più il distributore abbassa le rese e più gli conviene. La resa zero sarebbe l’ottimo ma è impossibile».

«Il nostro problema è che dobbiamo vendere i libri che gli altri non sono riusciti a vendere»

Caimi si dondola sullo schienale, dà due colpetti sulla scrivania con le nocche e pone l’accento sul fatto che il magazzino dove stipare le rese viene pagato comunque dall’editore, se ce l’ha, ma ha anche tutta la gestione del credito: «Le librerie muoiono come le mosche e se uno è distribuito da terzi il rischio è a carico del distributore. Il libraio non paga il distributore, quest’ultimo però è costretto comunque a pagare l’editore. Incassare seicento o ottocento da tutti i librai costa». E questa è una verità, infatti anche le piccole case editrici (quelle che possono permetterselo e pubblicano un tot di titoli l’anno) preferiscono utilizzare il principale distributore italiano poiché è impensabile che una libreria intenzionata a restare aperta, compia il passo falso di non saldare il distributore dei principali titoli in commercio. Meglio semmai castigare gli editori indipendenti o il piccolo distributore. Sì, resta sempre una forma di monopolio.

Quando domando se ci sono stati titoli che non si aspettava vedere qui, Mattioli crolla la testa come se avesse perso tempo, ma mi dà un contentino: «La domanda è interessante ma è slegata da una dinamica puramente commerciale o di gusto. Normalmente i libri hanno due vite, la prima edizione in copertina rigida e l’altra in tascabile. Nel lontano 1990, Leonardo Mondadori inventa la terza edizione, I Miti, i super tascabili. Tre finestre per allungarne la vita, a ognuna un fuori catalogo. Adesso gli editori sono diventati più cauti e chiudono una prima edizione con poche giacenze, almeno che non sia stato un disastro». Per un attimo rimango con poche e confuse idee, avrei bisogno di un caffè, fosse anche per alterare un minimo il mio stato psicofisico.

Ok il discorso del distributore, ma torno a puntare i piedi sul piccolo editore, che sono tignoso, sul perché pubblica se non vende. Caimi fa un sorriso maligno e sfodera la sua diplomazia fulminea: «Sa perché i piccoli editori vanno male? Perché pubblicano quello che piace a loro e non quello che piace alla gente». Quando chiedo se c’è un piccolo editore che ritiene interessante, risponde: «Nessuno, ma io non leggo, i miei vecchi libri se li stanno pasteggiando i calabroni». È Mattioli a raddrizzare il tiro: «Ci piacciono i piccoli ma ormai mi interessano gli autori, le storie. Il marchio conta poco. Il marketing promozionale è fare un bel publishing, avere un prezzo giusto e investire sul passaparola dei social ma in modo sottile, non invasivo». A ‘sti tre comincio a voler bene, deve essere uno spasso cenare con loro o attrezzare una messa satanica. Loro me ne vogliono un po’ meno e con savoir-faire aziendale mi fanno intendere che forse, chissà, è il momento di chiamare qualcuno per accompagnarmi nel magazzino.

Con Michele, il fotografo, iniziamo a perderci dentro una vastità di lamiera e carta. L’orientamento in breve va a farsi benedire, ogni tanto il responsabile alla logistica in servizio da più di trent’anni, Alessandro Civettini, ci riacciuffa prima di essere schiacciati dai muletti. Questi si muovono al centimetro tra i filari e innalzano l’operatore fino a otto metri e mezzo, magari al solo scopo di afferrare una copia che verrà spedita qualche minuto dopo. Civettini è tutto braccia e petto, implacabile nei resoconti delle movimentazioni, sincero quando si esalta nel mostrarmi i premi Nobel accatastati.
Un buon operaio che dalla fatica ha ottenuto il logico – almeno fino a qualche decade addietro – riconoscimento sociale, conscio di far parte in qualche modo dell’industria culturale, un Caronte della cellulosa a cui non ho avuto il coraggio di domandare se fosse un lettore o meno. Quando i libri diventano un’abitudine visiva pletorica, numerica, materiale e disciplinata, la privata predisposizione a leggere o a non leggere può aprire un ventaglio di domande sciagurate e irrispettose che quest’uomo non merita.
Mi piazza davanti ad alcuni bancali chiusi, possono restare così fino al momento della rotazione, e quindi della fine, altri all’improvviso iniziano a vendere. Un dato particolare è che non poche volte, quando fallisce una casa editrice, i suoi libri vengono acquistati più facilmente (mi viene raccontato del fallimento di un noto editore a cui hanno comprato cinque milioni di pezzi – nel magazzino vengono chiamati così); come quando muore un autore.

Due magazzini principali, uno di bassa rotazione con poche copie a titolo e l’altro con bancali interi dello stesso titolo. Per rendere meglio l’idea: quando c’è un ordine viene stampata una lista di prelievo in base alla posizione del percorso, per evitare agli operai inutili chilometri. Quando arrivano i pallet, i libri vengono contati a mano, quelli rovinati vengono spediti al macero, fra questi soffro nel vedere un Hunter S. Thompson smozzicato.

Nulla viene venduto al pubblico, c’è una sala campionari, ci sono i rappresentanti, un sito che solamente i clienti possono consultare, basta avere una licenza di libreria (secondo i dati AIE il 72% delle copie si vende in libreria). Mentre gironzolo nel magazzino e cerco goffamente di infilarmi sotto la camicia Il grande libro dei Peanuts, prezzo di copertina quarantadue euro, domando ad Alessandro se un requisito per essere assunti non sia aver letto massimo un libro in tutta la propria vita: «Qualche libro sparisce, poca roba, ma soprattutto è a causa di errori, quando vengono spedite più copie di quelle richieste. E poi agevoliamo i dipendenti con degli sconti importanti sui loro acquisti». Sotto i miei occhi intanto scorrono Dickens, Carroll, tanti Philip K. Dick, Houellebecq, Virginia Wolf, Doris Lessing, Tolkien, Lansdale, gli italiani Crepet, Fallaci, Gruber, Aldo Moro, 1000 copertine di Rolling StoneLa storia nelle prime pagine del Corriere della Sera. Di proposito non cito le edizioni. E poi libri di illustrazione, per bambini, ogni ben di Dio, ma anche tanta biada mediocre di cui il mercato si rimpinza. L’eutanasia arriva per settecento, ottocentomila di questi che vengono triturati ogni anno.

Ritorno in ufficio per i saluti. Mi viene donato un libro dell’apneista cubano Pipín Ferreras, assolutamente da leggere. Mattioli ci accompagna fuori, mi sto per accendere una sigaretta, ci penso un attimo: «Avete una buona polizza incendio immagino?».
«Sono plastificati, è praticamente impossibile. Vuole provarci?».

P.S.: Prima di arrivare al magazzino mi era venuto in mente quel capolavoro di Hrabal dal titolo Una solitudine troppo rumorosa, e quel suo personaggio, Hanťa, che per trentacinque anni macera libri. Credevo potesse essere una citazione perfetta per il corpo del pezzo, ma mi sento di inserirla qui, dopo la chiusa, per ritrovare un equilibrio, il mio.
“Contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alla radicine dei capillari”.