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La solitudine della memoria – Piero Terracina, sopravvissuto alla Shoah

Piero Terracina è un romano di Trastevere. Nasce nel 1928 e trascorre una normale infanzia tra la scuola (la Francesco Crispi a Monteverde) e il calcio, giocato ancora in strada. La storia potrebbe essere quella di un normale ragazzo della sua età di quell’epoca, senonché un giorno nell’ottobre del 1938, senza nessun motivo apparente, è cacciato dall’istituto scolastico e gli viene impedito di ritornarci. Non solo, alla sua famiglia vengono vietate cose come il poter andare in villeggiatura, il possedere una radio, finanche lavorare. I Terracina sono ebrei.

Fino a qui può sembrare un racconto non particolarmente drammatico, in particolare alla luce del momento complessivo in cui si trovava l’Europa in quel frangente e di quello che sappiamo che succederà dopo, ma così si rischia di non cogliere il trauma di un bambino che percepisce di subire una profondissima ingiustizia. La lente con cui guardiamo il passato è infatti distorta dal nostro punto d’osservazione, e inevitabilmente mi ritrovo a sorridere quando sento narrare da Piero della sua speranza che il 25 luglio del ’43, il giorno della caduta di Mussolini come capo del governo, rappresentasse la fine di quella vicenda. Mentre parla della sua infanzia in realtà sto aspettando solo che la vera “storia” inizi, considerando le leggi razziali come un piccolo preambolo della tragedia che seguirà. Così facendo però non colgo il reale sentimento del mio interlocutore, il quale soffre anche in quel frangente e al contempo s’illude che il peggio sia passato.

Ad arrestarlo sono i tedeschi, ma la delazione arriva da alcuni italiani, che per qualche migliaio di lire a ebreo vendono la sua famiglia.

Piero Terracina è stato davvero vicino a scampare al suo destino. Viene infatti catturato il 7 aprile 1944, solo un paio di mesi prima della liberazione di Roma da parte degli Alleati. Ad arrestarlo sono i tedeschi, ma la delazione arriva da alcuni italiani, che per qualche migliaio di lire a ebreo vendono la sua famiglia. Gli otto Terracina vengono portati in carcere al Regina Coeli (altro trauma non da poco, per un ragazzo, finire in carcere da innocente), poi al campo di Fossoli e infine ad Auschwitz II-Birkenau.

«La fila delle donne iniziò ad avanzare e le SS davanti a loro presero a indicare chi dovesse andare da una parte e dall’altra. Era cominciato lo sterminio, ma noi ancora non lo sapevamo».

So già che il tema di questo articolo potrebbe suscitare noia nei lettori. Si parla e si è parlato molto di Olocausto: perché trattare un’altra volta questo tema? Perché la Shoah è diventata il paradigma del male assoluto, ma anche il simbolo della memoria storica e delle necessità (e dei motivi) per i quali bisogna ricordare il passato. Concetti, e i conseguenti termini (genocidio, crimine contro l’umanità) legati all’Olocausto e nati all’indomani della Seconda Guerra Mondiale sono ora comunemente usati per ogni altro contesto, sia esso più o meno appropriato. Parlando del passato – anzi: di questo passato – in realtà dunque parliamo del futuro della nostra memoria, di come ci approcciamo e di come ci approcceremo ad altri eventi drammatici, come per esempio quelli accaduti nei Balcani o come quelli che ancora avvengono in molte parti del mondo; fatti che diventeranno a loro volta memoria e storia, e che per il nostro bene dobbiamo imparare a trattare correttamente.

Il contesto in cui la casa attuale di Terracina si trova è assai differente da quello della tragedia passata. La periferia collinare di Roma sa essere tranquilla, verde e accogliente. Ci sono poche auto per strada e pochi passanti sui marciapiedi. L’appartamento si trova in uno di quei palazzi figli del benessere economico e della crescita demografica. Immagino che qui prima fosse tutta campagna, mentre ora edifici né belli né brutti chiudono il paesaggio, pur senza aver eliminato del tutto la presenza di erba e alberi.

Nonostante il mio timore e la curiosità d’incontrare un simile personaggio, all’ingresso Terracina sa mettere subito a suo agio l’ospite. Si dimostra allegro, affabile, e la sua leggera sordità offre più spunti di riso che d’imbarazzo. Il piccolo corridoio in cui mi accoglie è l’unico luogo in cui la casa comunica apertamente la religione del suo proprietario. Su un mobiletto stanno in bella mostra oggetti tipici della tradizione ebraica, come candelabri a sette braccia, trottole, quadri a soggetto biblico, fotografie e attestati. Per il resto sembra una normale abitazione di un normale pensionato, per quanto attento alla cultura e all’ordine. Questo pensionato è stato però uno dei primi e tra i più attivi italiani a impegnarsi nel raccontare la sua esperienza in pubblico, e quello che oggi m’interessa è di comunicare la storia della memoria e del racconto della Shoah, che come tutti i fatti umani ha un inizio, dei fattori scatenanti, uno sviluppo e delle considerazioni da fare.

La raccolta di memorie, la narrazione di massa della propria esperienza, iniziò con la Prima Guerra Mondiale e da lì divenne una prassi per ogni altro fatto di grande portata. Nessun altro evento ha però raccolto un numero di testimonianze simile a quelle raccolte sulla Shoah. Su di essa esistono centinaia di migliaia di testimonianze scritte e queste iniziarono a essere raccolte già durante lo sterminio, probabilmente come reazione a quella che non voleva essere solo l’eliminazione fisica di tutti gli ebrei, ma anche la cancellazione della loro memoria.

È stato uno dei primi e tra i più attivi italiani a impegnarsi nel raccontare la sua esperienza in pubblico.

Nel dopoguerra questi ricordi continuarono a essere prodotti, ma la maggioranza dei superstiti si rinchiuse nel suo silenzio. Non è facile parlare di simili questioni, in particolare perché queste memorie non venivano comunicate all’esterno: non esisteva ancora un dibattito pubblico sull’Olocausto e quindi i manoscritti non uscivano dagli archivi. Forse finita la guerra nessuno voleva sentir parlare di tragedie, forse i sensi di colpa spingevano a un accordo di silenzio, forse mancava un’occasione per portare alla luce tutti questi ricordi, fatto sta che i superstiti per decenni vissero da soli col peso del loro tragico passato.

Una prima occasione per uscire da questa condizione fu data ai sopravvissuti dal processo Eichmann nel 1961, procedimento in cui le testimonianze furono fondamentali per portare alla condanna del gerarca nazista. Nel dibattito pubblico è stata però la televisione – in parte a causa della sua attitudine a considerare e a dare voce a tutti, anche agli appartenenti alle classi prima non considerate – ad aprire il primo varco. L’evento simbolo fu la messa in onda del serial Holocaust, di Marvin J. Chomsky: anche se ampiamente criticato, aprì uno spazio per parlare di Shoah.
Anzi, fu proprio la scarsa accuratezza del prodotto a spingere molti sopravvissuti a raccontare, nel timore di “essere derubati” della propria memoria/storia, che vedevano in tv deformata per potersi adattare ai canoni hollywoodiani. A riscuotere consensi e a creare ancor più ampie conseguenze fu invece Schindler’s list. Il film di Spielberg (e non solo, in realtà) trasformò il testimone in una persona rispettabile, anzi rispettabile proprio in quanto sopravvissuto. E questo aiutò a superare la vergogna. L’Olocausto passò dall’essere un momento fonte d’imbarazzo a un momento del passato da brandire come vessillo della propria identità.

La vicenda di Terracina ricalca molto bene questo andamento. Al rientro, tace. Come i suoi compagni di quella sventura ha paura di non essere creduto, le cose di cui parla sono di una tale enormità che la gente stenta a credergli. Talvolta nota nell’interlocutore perfino un senso di fastidio.

Piero il 27 gennaio 1945 ha 15 anni, pesa 38 chili e degli otto membri della sua famiglia è l’unico a essere scampato alla morte. I russi lo ricoverano in un ospedale a Sochi, sul Mar Nero, e formalmente lo arruolano nell’Armata Rossa, ma il suo unico atto pubblico in divisa è quello di partecipare alla parata per celebrare la fine della guerra contro il Giappone. Ritorna a Roma e, oltre che solo, si trova senza casa: la sua abitazione è stata saccheggiata e occupata da sfollati. Il giudice gli concede di rientrare in possesso di un’unica stanza, in quanto essendo solo «gli poteva bastare». C’è anche però chi mostra comprensione nei suoi confronti: l’azienda in cui lavoravano suo fratello e sua sorella lo assume. A 17 anni Piero Terracina inizia a lavorare e riprende una parvenza di vita normale.

Al rientro, tace. Come i suoi compagni di quella sventura ha paura di non essere creduto.

Il tempo passa e alla fine degli anni Ottanta è eletto nel Consiglio dell’Aned (Associazione ex deportati). L’interesse a livello internazionale si è risvegliato e i libri di Primo Levi e quelli di altri autori sopravvissuti alla deportazione hanno aperto il dibattito nell’opinione pubblica italiana. L’occasione per sfruttare questa attenzione giunge quando l’Accademia dei Lincei lo invita come rappresentante dell’Aned al convegno in memoria di Emilio Segrè, fisico italiano la cui madre fu deportata il 16 ottobre 1943 e assassinata al suo arrivo ad Auschwitz. Terracina parla per venti minuti. Quando termina il pubblico non fiata. Anche il presidente Giorgio Salvini non dice nulla, lo abbraccia solamente. Altri fanno altrettanto. Quello è l’inizio: subito dopo riceve delle richieste per andare in alcune scuole da parte di alcuni professori presenti al convegno. La Shoah esce dalla memoria personale ed entra nella memoria pubblica.

A questo punto anni di studi di storia mi portano a frenare l’entusiasmo per quello che – questo senza nessun dubbio – è stato il lungo e ottimo impegno che Terracina ha dedicato alla divulgazione del suo passato. Il passato però è diverso dalla storia, quindi la memoria di un reduce è una testimonianza di quanto è successo, ma non una sua precisa analisi. Il racconto di un sopravvissuto è, né più né meno, una fonte al pari di un documento cartaceo prodotto da un ufficio. Si tratta certamente di una tipologia di testimonianza dal passato spesso incredibilmente ricca d’informazioni e di spunti, fra l’altro di diverse discipline, ma pur sempre una fonte resta. È quindi utilizzabile non di per sé, ma solo attraverso le domande che le vengono poste: lo storico non legge le fonti, le interroga. Un reduce può inconsapevolmente parlare di altro rispetto alla trama del suo racconto. Può indirettamente fornire materiale per studiare aspetti non direttamente narrati. Le sue omissioni talvolta sono perfino più importanti del detto e così anche i suoi errori. Sono le discrepanze che offrono i varchi migliori dietro i quali indagare le strutture nascoste della realtà, ma bisogna sapere dell’esistenza di questi varchi e come poter sbirciare al loro interno.

Con la nascita della necessità di divulgare la storia in diversi modi e su canali che non fossero più solo quelli accademici, questi temi e la consapevolezza di questi aspetti sono passati in secondo piano e a prevalere è stato l’impatto, la forza, che una testimonianza di una persona reale ha sul pubblico. È innegabile che sentir parlare un uomo o una donna di un fatto (magari drammatico, come nel caso della Shoah) ha una potenza incredibilmente maggiore rispetto alla narrazione scritta, a maggior ragione se di taglio saggistico. Sbattere in faccia al pubblico un documento senza contestualizzarlo però non è onesto. E neppure utile. Come un’epigrafe romana richiede anni di studio e competenze per essere interpretata in tutti i suoi aspetti, così la testimonianza di un reduce necessita di un’attenta lettura e di mezzi che il grande pubblico non possiede. Una testimonianza può quindi essere presentata, ma solo se sorretta da un adeguato supporto.

Mentre penso tutto ciò, che in fondo fa parte del mio retroterra culturale, della mia impostazione mentale e di conseguenza della mia personale visione e interpretazione della realtà, cerco però anche di mettermi nei suoi panni. Anzi no: “mettermi nei suoi panni” o “vestire i panni delle vittime” è una truffa del marketing. Per quanto si possa studiare, per quanto si possa essere empatici, per quanto tempo si possa passare con Piero Terracina, non si potrà mai capire la sua esperienza, non si potrà mai davvero provare quello che ha provato lui mentre altri uomini lo consideravano inumano e cercavano di ucciderlo. Si può però cercare di raccogliere la sua storia, la sua memoria. Si può provare a sintetizzare parte del suo vissuto per mettere quanta più gente possibile in condizione di capirlo. E magari trasmettere qualcosa.

Chiedo a Terracina, alla luce della sua lunghissima esperienza nelle scuole, come sia possibile andare di fronte a una platea di bambini e parlare di Auschwitz. Risponde che le difficoltà maggiori le ha incontrate proprio coi più piccoli delle elementari perché malgrado eviti di entrare nei particolari, i bambini intuiscono tutto. A qualcuno di loro comincia a spuntare una lacrima già parlando solo di come è stato cacciato senza colpa da scuola, di come amici di gioco iniziarono a trattarlo come uno sconosciuto da un giorno all’altro; e a questo punto entra in crisi. Con tutti, anche gli adulti, cerca in ogni caso di non entrare mai nei particolari più crudi. Racconta la quotidianità della vita nel lager di Auschwitz, ma anche nella quotidianità c’era l’orrore.

Intanto che Piero parla, dalla cucina giunge un profumo di pesce in padella, accompagnato da un suono che inizialmente non riconosco: è la sigla di Radio Maria. Terracina ride della cosa: la sua colf da anni è una sudamericana, religiosa e ovviamente cattolica. Presenta il figlio della donna quasi come fosse un suo nipote. È curioso notare la differenza di rapporto. Per noi Terracina è un monumento vivente. Un testimone di eventi del passato, che trattiamo con una giusta sacralità, con tutta l’attenzione che questa ferita della nostra identità Occidentale richiede e causa in noi. Per la signora e suo figlio, Piero è invece una persona normale.

Più ci penso e più mi pare incomprensibile: che Terracina sia così sereno, così bendisposto nei confronti del suo paese da cui ha subito un tale trattamento, mi sembra incredibile. Trovo ammirevole anche la sua fiducia nel genere umano. Non è un caso che le piante che ha sulla sua terrazza (aranci, ulivi, etc.) siano tutte legate a un’immagine di mediterraneo caldo e pacifico. In effetti penso non sia un caso neppure la scelta – sia essa consapevole o meno – di vivere in un appartamento così luminoso: l’esposizione è ottima e le ampie vetrate illuminano la libreria, ricolma di alcuni libri che parlano di temi assai meno solari.

Forse non è neppure un caso che sia rimasto a vivere in una città popolosa come Roma: i reduci della Shoah sono stati lasciati soli troppo spesso. Una prima volta quando l’indifferenza delle persone permise che le leggi razziali e la deportazione avvenissero. Una seconda volta quando al loro rientro in patria non furono accolti con nessun reale supporto psicologico o morale e furono così spinti a rimanere in silenzio. Una terza volta quando sulle loro spalle è stato caricato tutto l’enorme peso della responsabilità del comunicare e trasmettere la loro esperienza. Una società che non voleva (e forse tutt’ora non vuole) fare veramente i conti col suo passato ha deciso di trincerarsi dietro il paravento emotivo dei racconti drammatici di quelle persone che riuscirono a tornare.

L’esperienza di Terracina e di tutti gli altri internati nei lager nazisti rimane irraggiungibile per la nostra comprensione.

L’esperienza di Terracina e di tutti gli altri internati nei lager nazisti rimane irraggiungibile per la nostra comprensione. La storia però è un processo d’avvicinamento alla distanza. Serve a comprendere e ad accostarci a epoche e a luoghi passati, a vite che mai potranno essere le nostre e di cui abbiamo solo informazioni parziali. Così, anche se nulla ci potrà far sapere tutto dell’esperienza concentrazionaria, possiamo però arrivare a comprendere Terracina e il suo vissuto. E comprendere con consapevolezza è il passo che deve precedere qualsiasi altra cosa.

Devo ora rivelare una cosa: io Piero Terracina non l’ho mai incontrato. Questo articolo è un reportage che ho scritto come un saggio di storia. Il tono è ovviamente diverso, mancano delle vere note a piè pagina e molte altre formalità, ma tutto quello che state leggendo è stato tratto da fonti scritte (una lunga intervista avvenuta tra me e Terracina via mail e saggi accademici); audiovisive (l’intervista rilasciata da Terracina alla Shoah Foundation il 17-3-1998); e orali (il racconto dell’incontro tra lui e Terracina fattomi dal fotografo Paolo Vezzoli).