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E se la rivoluzione fosse già scoppiata?

Marcello Baraghini è nato a Civitella di Romagna nel 1943, in una casa contadina sul crinale di una collina, il 19 novembre. La zona era sotto il controllo dei partigiani. Dopo 15 giorni quella casa – in posizione strategica, sulla Linea Gotica – diventa un comando tedesco. Poi viene riconquistata dai partigiani, poi di nuovo dai tedeschi, infine la liberazione.
Mentre i due eserciti si fronteggiano, la madre e Marcello si rifugiano in una grotta poco distante, nascosta da un roveto. Marcello ci è tornato anni dopo, “Quando ci sono rientrato mi è sembrata una tenda mongola, bassa, spaziosa”, mi ha raccontato.

La camera da letto di Marcello Baraghini. Lui la definisce “plancia di comando”.

Marcello se ne va di casa a 20 anni (la maggiore età era 21 anni). “Mia madre mi diceva, Morirò, te ne vai e morirò. Io le ho risposto, Bo fai il cazzo che ti pare, io vado. È campata fino a 90 anni.” A quel punto raggiunge Roma, si fa crescere i capelli, gira l’Italia in autostop, “Da libero, drogato, alcolista, comunardo.”

Nel 1965 prende in affitto un sottotetto in via della Panetteria 36. Lì vivrà con Marco Pannella e altri radicali, per alcuni anni. È l’appartamento in cui Pannella ha vissuto i suoi ultimi giorni, quello in cui sono stati fotografati – in pellegrinaggio – Renzi, Berlusconi, Bertinotti, Vasco Rossi.

«Mia madre mi diceva, “Morirò, te ne vai e morirò”.
Io le ho risposto, “Bo fai il cazzo che ti pare, io vado”.
È campata fino a 90 anni»

Nel 1970 Baraghini fonda Stampa Alternativa, casa editrice di controinformazione. Dal 1970 al 1976 colleziona 127 denunce per reati d’opinione e dopo una condanna definitiva sceglie la latitanza. A quel punto si stabilisce a Elmo, frazione di Sorano, nella Maremma grossetana. Nel 1989 inventa i libri Millelire, caso internazionale di editoria economica. Il successo fu planetario, Baraghini venne nominato professore di marketing per un giorno all’Università di Tokyo. Oggi continua a editare e gestisce una libreria, che lui chiama “astronave”, insieme a Claudio Scaia, che lui chiama “complice”; è a Pitigliano, in via Zuccarelli, si chiama “Strade Bianche”, e ha due piani interrati scavati nel tufo.

Stamattina mi sono svegliato nel letto di Marcello Baraghini.
C’è una tramontana esasperante, batte alla finestra, mi immagino che fuori il panorama sia molto nitido. Il letto in cui mi sono svegliato non è proprio quello di Marcello, ma uno dei letti per gli ospiti, al primo piano di casa sua.

Stanotte, in quel letto, ho sognato Steve Gebhardt. Era un regista americano, ha girato documentari con Yoko Ono, i Rolling Stones, John Sinclair, Zaha Hadid. Incontrò Marcello cinque anni fa, a Pitigliano, e decise di girare un documentario sulla sua vita. Faceva avanti e indietro, Cincinnati – Maremma – Cincinnati, chiacchierate, riprese, ricerche negli archivi, il materiale si moltiplicava in maniera disarmante, lui era messo male, strafumava strabeveva, mi ha raccontato ieri Marcello. “Dovevamo presentare il documentario l’anno scorso. Ma arrivò con del materiale provvisorio. Sentiva che se l’avesse terminato, sarebbe morto. Questa è la mia teoria”. È morto lo stesso, il mese scorso; e niente documentario.

Nel sogno Steve bussava al pavimento della stanza dove mi sono svegliato ora, da sotto. Non rispondevo. Lui apriva una botola. Si affacciava. Aveva capelli lunghi e radi: non ho controllato su Google che faccia avesse. Nel sogno non ha detto una parola.

Mi rivolto nel letto. Una botola, in questa stanza, c’è davvero. È un quadrato di pavimento sollevabile: sotto c’è una scala ripida che scende al piano terra. C’è un locale con un frigorifero; all’interno: una forma di pecorino, uova, un salame per gli ospiti, la panzanella avanzata ieri sera (pane raffermo, pomodori, cetrioli, cipolla, basilico, sale, pepe, olio, aceto), 4 bottiglie di limonata Schweppes. Da una porta si accede alla cucina, c’è un tavolo di legno al centro. A destra della cucina un’altra porta, da cui si accede alla “plancia di comando” – Baraghini la definisce così – dell’ “editore all’incontrario” – Baraghini si definisce così – con il letto di Baraghini, i vestiti di Baraghini, il computer che Baraghini ha imparato a usare tre anni fa, abbandonando le sue macchine da scrivere, che giacciono ordinate su due mensole del bagno al primo piano; le ho contate ieri sera, mentre mi lavavo i denti: sono nove.

Uscendo dalla cucina c’è il giardino, che è aperta campagna. C’è una grande quercia. Un orto con dei pomodori. Un pesco. Un albicocco. Un ciliegio. Un nocciolo. Delle rocce: alcune utili come sedute, alcune impilate una sull’altra in equilibrio precario (a vederle), assai stabile (a giudicare dall’indifferenza alla tramontana); Marcello le individua affiorare dal terreno, le dissotterra, le fa rotolare fino a dei punti che gli garbano: uno strano lavoro da arredatore. Ce n’è una che ha la forma di una colonna d’ormeggio per le navi, sta sul crinale di una balza che guarda la distesa di colline sotto. Uno strano mare. Un giovane fico è ancorato con una corda a una di queste rocce, così la tramontana non se lo porta via.

In mezzo al giardino c’è una yurta, che è una tenda mongola riprodotta nei dettagli. Ieri abbiamo pranzato lì con Agnes, che è di Veszprém, Ungheria: è un’amica di Marcello, è quella che ha costruito la yurta, ha vissuto nel blocco sovietico. Era infastidita perché ha dovuto pagare il canone RAI; mi ha detto che i due grandi sistemi ideologici – il capitalismo e il comunismo – hanno fallito entrambi; sono meccanismi mentali che tutti abbiamo dentro e la nostra esigenza è sempre quella di ricreare un potere, uno qualsiasi, e pochi riescono a uscire da questo processo, e Marcello è uno di quei pochi, dice lei. Nel frattempo la tramontana batteva la yurta come un tappeto.

La yurta che Agnes ha costruito nel giardino di Marcello.

Mi tiro la coperta verso il naso, svanisce l’immagine di Steve Gebhardt. Allungo un braccio, tasto il pavimento, afferro il cellulare. Ore 8.30. Apro l’archivio dei file audio. Trovo la registrazione di ieri sera. Play. Sento la mia voce:

“Mi racconti la storia di Hofmann?”
“Da giovane sono stato un figlio dell’LSD, con il mito del suo scopritore, Albert Hoffman. Nel 1992 riesco a farmi invitare a casa sua, a Burg im Leimental, al confine tra Svizzera, Francia e Germania, una casa immersa nei boschi. L’ho convinto a venire a Milano l’anno dopo, per una conferenza alla biblioteca Sormani. Fu pazzesco: la sala era ampia, la gente aggrappata ai muri. Punkabbestia gomito a gomito con scienziati, psicologi, ricercatori. Si sentivano solo le mosche che volavano. Traduceva dal tedesco Marco Zapparoli, il fondatore di marcos y marcos. La sera andammo in un’osteria ai navigli; Hofmann si bevve un litrozzo e fu assaltato da una processione di corteggiatori – c’era Matteo Guarnaccia e un sacco di altra gente – tutti a chiedergli un autografo con formula chimica dell’LSD. La formula se la beccò solo il cuoco, a tarda notte, un marocchino che aveva imparato il mestiere a Napoli, simpaticissimo. La mattina dopo partimmo su un’utilitaria – io, Hoffman e Roberta, la mia compagna di allora – alla volta di Lodi; lui voleva visitare i laboratori della Roche, dove aveva fatto il ricercatore da giovane. In circonvallazione chiese di fermare l’auto. Pensai che dovesse pisciare. Invece aveva individuato un fiorista. Tornò con un mazzo di fiori per Roberta.”

«Da giovane sono stato un figlio dell’LSD»

Stop. Il mio letto è incastonato tra due pareti di libri, tutti editi da Stampa Alternativa. Prendo il mio quadernetto blu, è sul pavimento. Mi appunto qualche titolo: Disonora il padre e la madreMaledetta fabbricaI geroglifici fantastici di Athanasius Kircher. Poi c’è una serie di libri sulla civiltà etrusca. Di fronte, poco distante dai miei piedi, mensole con volumi sui Grateful Dead, Bob Marley, Gaber, Fela Kuti, Jannacci, Storia della canapa indianaLa morale anarchica. M’incuriosiscono le Note sul poker, di Guy Debord; trascrivo la prima pagina: “Il segreto della superiorità nel poker sta nel regolarsi in primo luogo, e per quanto è possibile, sulla base delle forze reali che si hanno a disposizione. Di certo non ci si deve spingere troppo avanti con forze modeste. Bisogna saper sfruttare fino in fondo il kairos della forza al momento giusto. È facile perdere poco, se si tiene fisso in mente il pensiero che l’unità non è la mano, ma la partita. Vincere molto, al momento giusto, è molto più difficile; e questo è il segreto dei buoni giocatori”. Entro in Google da sotto le coperte. I greci avevano due termini per significare il tempo: chronos, il tempo cronologico e consequenziale, e poi kairos, che è il momento giusto, un tempo non misurabile, soggettivo, sfuggente.

Sono preso dal timore di dimenticare, mi fisso sul quadernetto una serie di cose da raccontare:

– Nascita di Stampa Alternativa
– Matrimonio e latitanza
– Diario di un pedofilo
– Capelloni, drogati, froci e macrobiotici
– Fare politica coi calzini
– Il tunnel sotto il culo

Stampa Alternativa è una casa editrice romana fondata nel 1970, sull’esempio delle Alternative Press americane e inglesi, recita Wikipedia; mi è venuta la curiosità di consultarla dal cellulare.

“Stampa Alternativa erano 4 appartamenti aperti giorno e notte, a Roma, in via Prato Falcone”. La voce di Marcello ha un accento romano lenito dalla Toscana e dall’età. “Era un quartiere di sottoproletari, con gli orti, i pollai, il negozio di vino sfuso. Un’oasi alla fine del quartiere fascista di Prati. L’urgenza era costruire un’alternativa all’alternativa. Un’alternativa alle spinte autoritarie, che vivevano già nel ’68 e che poi si trasformarono nei gruppi di lotta armata. Iniziammo stampando degli opuscoli: Andare in India, con le notizie utili dei primi italiani che ci andavano, Manuale di coltivazione della marjiuana, mezzo milione di copie vendute, Festa continua. E poi Fare macrobiotica, l’autore era il figlio del maestro Pregadio.

Froci, capelloni, drogati e macrobiotici: gli scagnozzi di Erri de Luca, del servizio d’ordine di Lotta Continua, ci apostrofavano così. Noi anarchici contestavamo le loro modalità di organizzazione dei concerti: a pagamento, con cartellone proposto da imprenditori che si presentavano in Mercedes. Irrompevamo ai concerti e loro Vaffanculo, a froci! E giù mazzate. E adesso me lo ritrovo, Erri de Luca, che riempie libri con due cartelle di testo, partendo da un versetto dell’Antico Testamento, e spunta dal mare, col tramonto e i gabbiani, in quel film…[ride]”

Pausa. Cerco su Google Immagini: “Erri de Luca film gabbiani”. Il primo risultato è lo scrittore dietro una finestra, con polpastrelli schiacciati sul vetro e occhi azzurri ficcati nel vuoto.

“In quei locali umidi, fatiscenti, accoglievamo tutta la feccia: drogati, psichiatrici, gente con fogli di via, scappati di casa, hare krishna, ragazzine che volevano abortire a cui noi fornivamo alcuni recapiti di Londra. Avevamo avvocati, infermieri, medici. Tutto finanziato con gli opuscoli e le casse comuni.”

“Cosa facevi prima di Stampa Alternativa?” Questa è la mia voce.

“Negli anni ’60 alternavo la vita da strada, gli acidi e alcuni turni alla sede del partito radicale. Fino a che trovai quel sottotetto in cui ho vissuto con Marco [Pannella, nda]. E facevo quattro soldi lavorando come correttore di bozze all’Avanti. Poi passai all’Astrolabio di Ferruccio Parri [primo presidente del Consiglio dopo la seconda guerra mondiale, nda]. Parri scriveva a mano, di notte, su fogli intestati del Senato. Qualche volta ci incontravamo alle 4 del mattino, mi dava il pezzo da correggere e, prima di salutarci, ci facevamo due chiacchiere e un bicchierino della vodka che gli regalavano i suoi amici di Mosca. Dall’Astrolabio, in quel periodo, passarono Tiziano Terzani, Saverio Tutino, Giampiero Mughini. Ci transitò anche Giancesare Flesca: stava con una tedesca, Rose Marie, si fece la sua storia, poi la lasciò per strada. Lei era disperata. Ci conoscemmo in Piazza Navona, non voleva tornare in Germania ma non aveva più un soldo. Io ero in partenza per la Puglia. Senti, queste sono le chiavi dell’appartamento – le dissi – c’è un posto dove tengo i miei risparmi, 50mila lire. Se ti servono, usali. Tornai e lei era ancora lì: nacque una storia di innamoramento, di erotismo, di tutto. Era la fine del 1969.

«La vita me l’ha salvata Pannella»

Il nostro appartamento iniziava a diventare un piccolo ritrovo di figli dei fiori. Rose Marie pensava al suo futuro, faceva la disegnatrice per stoffe. Iniziava ad affermarsi.

Nello stesso anno mi contatta Luigi Pintor: stava fondando il manifesto, e non aveva nessuno che sapesse chiudere il giornale in tipografia. Lo chiusi io: tipografia a piombo. Poi partii con Rose Marie per New York: voleva provare a vendere i suoi disegni lì. Troviamo ospitalità proprio da una corrispondente del manifesto. Rose Marie passa la prima notte a consultare le pagine gialle, sezione tessuti. Il giorno dopo giriamo la città con una mappa e due faldoni da 25 chili – lei bionda fantastica, io appresso – a bussare alle porte di posti incredibili per mostrare il campionario di disegni. Grande successo, soldi. Torniamo a Roma e mi dice: Ok, ora caccia i tuoi amici capelloni dall’appartamento. Dimmi quanti soldi ti servono per sistemarli, così non rompono più i coglioni. Se ne andò lei. E quell’appartamento divenne il primo fortino di Stampa Alternativa.”

A casa di Marcello Baraghini sono arrivato cinque giorni fa, partendo da Bergamo. A4, tangenziale est di Milano, A1 fino a Parma, A15 Parma-La Spezia, poi A12 Genova-Rosignano, quindi SS1 Aurelia, si supera Grosseto, si segue per Manciano, Pitigliano, Sorano, si giunge a Elmo, fuori dall’abitato si svolta a sinistra, si prende una strada asfaltata che diventa strada bianca, a un certo punto si divide, si tiene la sinistra, al bivio successivo ancora a sinistra, due o trecento metri e la casa di Baraghini è sulla destra. Alla fine della latitanza, nel 1976, si stabilì qui.

“La persecuzione giudiziaria mi colpì con la pubblicazione di Contro la famiglia. Manuale di autodifesa e di lotta per i minorenni. In fondo io avevo iniziato con l’editoria come debito personale nei confronti di mia madre. Era violenta. Perché insoddisfatta e repressa, per via del rapporto con mio padre; lui era un alienato, un fascista recidivo, volontario in Grecia nella seconda guerra mondiale, sopravvissuto e mai pentito. Da adolescente io ero un concentrato di disperazione: obeso e balbuziente. Violenze in famiglia, abusi. Abusi, anche sessuali, a scuola dai preti e in oratorio: il cinema la domenica mattina, e prendi i formaggini, e i pasticcini, e poi giochiamo a biliardo e alè. Funzionava così. La rivoluzione ho dovuto iniziarla da me stesso: o mi suicidavo o uccidevo mia madre. Ho scelto una terza via: uscire di casa e riempirmi di droghe. La vita me l’ha salvata Pannella. Mi folgorò con l’idea che il mio corpo e le mie azioni, di conseguenza, sono politica.”

Sento il rumore di un’auto che procede sullo sterrato, fuori dalla finestra. Dev’essere Rosi, un’amica di Marcello che lo accompagna in libreria. Lui non ha la patente. Intanto la sua voce continua a diffondersi nella stanza degli ospiti dal mio cellulare.

“Verso la fine di Contro la famiglia, c’era una frase che suonava più o meno così: Cara minorenne, se vuoi abortire chiama questo numero di Londra: ci sono delle psicologhe con cui potrai dialogare. Cazzo, mi hanno dato 18 mesi per incitamento all’aborto, che si sommavano ai 13 per incitamento all’obiezione di coscienza; spazzata via la condizionale. Ci fu una campagna a mio favore nella Federazione della Stampa: l’idea era tenere una conferenza con una grossa copertura mediatica, nella loro sede, per poi consegnarmi ed essere trasferito a Regina Coeli. Col cazzo che mi sono presentato! Alla conferenza c’era la sedia vuota, con un mio appello scritto per la libertà di stampa.”

La casa di Elmo, prima dell’arrivo di Baraghini, apparteneva a una famiglia di contadini. In principio era più piccola: mano a mano che i figli della famiglia si sposavano veniva ingrandita, di modo che potessero vivere lì con le mogli e gli animali. L’ultima abitante fu la nonna. Il nipote si chiamava Giampiero e faceva il tipografo. Alla sua morte vendette la casa a una ragazza svizzera, Maddalena. Maddalena fece realizzare alcuni lavori di ristrutturazione a un’impresa. Pagò uno sproposito, i lavori li fecero malissimo, e su un architrave lasciarono scritto: “Viva la topa”. Così Maddalena chiama Sisto, per mettere una pezza e sistemare qualche rifinitura. Si innamora di lui e si trasferiscono poco distante. Baraghini compra la casa da lei: 15 milioni lui e 15 milioni Paola, sua compagna, diventata moglie da poco. Il matrimonio si svolse così: cerimonia alle 9 di mattina, officia il consiglier Bozzi del Partito Liberale. Rinfresco in trattoria con servizio veloce. Partenza per la latitanza a bordo di una Renault 4, Marcello, Paola e il cane Tupa, diminutivo di Tupamaros. Il giorno dopo, sul Corriere della Sera, esce un articolo a 9 colonne, con titolone: “Baraghini latitante”. Paola l’aveva sposato per seguirlo: non sarebbe potuta uscire di casa senza un marito. Il padre di Paola – caposervizio dell’ANSA in Parlamento – realizza che la figlia si è appena sposata con un latitante. Gli sposi si nascondono in Puglia, poi nel frusinate, infine approdano a Elmo. Poi l’amnistia, nel 1977, che cancella il carico delle pendenze.

“Paola è stata anche una militante di Potere Operaio. E si innamorò di me, fricchettone, non violento. Ho una chiave personale – che va oltre il mio caso personale – per spiegarti i movimenti armati. Nascono con l’idealismo sincero di personaggi come Curcio e la Cagol: fatti fuori subito. Poi diventano una palestra di arrapati che volevano scoparsi le ragazzine sfruttando il fascino della pistola. Infine si trasformano in un ricettacolo buono per tutti: infiltrati, spioni di stato, esagitati, provocatori. Già nel ’68 le assemblee pendevano dalle bocche dei leader. Brigate Rosse, Potere Operaio, Lotta Continua: la sconfitta è stata provocata dall’ego, dalle escrescenze dell’ego. E dal primissimo femminismo. Che pone fine al tempo degli angeli del ciclostile e a tutte queste minchiate di subordinazione delle donne. Le donne fanno un culo così ai vari leader, primo fra tutti ad Adriano Sofri, di Lotta Continua.

Per lui ho stampato due libri Millelire. Facevamo le presentazioni in aule universitarie strapiene, Siena, Firenze, Bari. Lui riusciva a catturare il pubblico, a conquistarlo a tal punto che se alla fine dell’incontro avesse detto Bene, adesso usciamo e andiamo a occupare le prefetture, lo avrebbero seguito tutti.”

Cambio pagina del quadernetto. Scrivo molto velocemente.

1963: Marcello si avvicina al partito di dissidenti del PCI, i giovani dello PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria). “Avevano la sede in via Zanardelli, iniziai a frequentarli. Ero rabbioso e curioso, in cerca di eresie. Quelli parlavano male soprattutto di Pannella: la cosa mi colpì”. Così decide di andare alla sede dei Radicali, in via 24 maggio, a due passi dal Quirinale. Ci sono una quindicina di stanze e c’è solo Pannella. I due iniziano a parlare. Qualcuno suona al campanello. È arrivato un taxi per l’aeroporto. Pannella lo rimanda indietro. Marcello aderisce al partito: è tra i fondatori della Lega per l’Istituzione del Divorzio. “Lì inizia la prima delle mie quattro vite” mi ha detto. Nel 1967 Pannella gli fornisce una falsa documentazione per iscriversi all’albo dei pubblicisti. In questo modo può garantire la legalità a qualsiasi rivista clandestina, basta apporre alla propria pubblicazione: “Supplemento a Stampa Alternativa. Direttore: Marcello Baraghini”: è la battaglia radicale per la libertà di stampa, contro l’ordine dei giornalisti.

Nel 1969 Marcello e Pannella vanno a Sofia, per manifestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia: quattro giorni di carcere. Nel 1970 fonda Stampa Alternativa. La seconda vita. Nel 1976 entra in latitanza. Nel 1989, inizia la terza vita: esplode l’idea delle Millelire. Libri tascabili, 10×14 cm., costano come un caffè, sembrano innocui ma hanno un potenziale sconvolgente, titoli scomodi, di altissima qualità. Mishima, Artaud, Eraclito, le veline di Mussolini, Papini, Sade, la dichiarazione processuale di Charles Manson, scritte raccolte nei cessi: i libretti si moltiplicano. Marcello li mette in valigia, li vende su un tappetino al mercato di Porta Portese e alle fermate della metropolitana. All’epoca internet era ancora un misterioso strumento ad uso militare e scientifico. Il Millelire che fa scoppiare il caso è la Lettera sulla felicità di Epicuro. Capita tra le mani di Corrado Augias, che ne parla a Babele, su RAI3, lo mostra alla telecamera e dice “Vedete questo libro? Vale milioni e costa mille lire”. La Lettera sulla felicità venderà un milione e mezzo di copie.

«Per la prima volta parlava l’ultimo degli avanzi di fogna. Decisi di editarlo col titolo esplicito: “Diario di un Pedofilo”»

1993: Baraghini ritrova l’amico Marco. Ha sentito della Lista Pannella. Gli lascia un bigliettino di complimenti nella salumeria di fronte a casa. Due giorni dopo si ritrova capolista a Bari, e numero due a Roma e Milano. “Marco mi incarica di aprire la campagna elettorale per la lista, sulle due reti televisive dei Radicali. Mi ero preparato un paio di minchiate. Dopo cinque minuti avevo finito: e adesso che dico? Avevo la mia borsa rigida. La apro e la svuoto sul tavolo. Mostro un pezzo alla volta alla telecamera: manoscritti, bozze, Millelire, mutande, calzini sporchi. Ogni pezzo una storia. Racconto dei calzini, perché puzzano, dove li avevo comprati, chi li riparava. Dopo 15 minuti mi avvisano che c’era un terremoto di chiamate in attesa al centralino. Che cazzo c’entrano i calzini? C’entrano. I calzini fanno parte della mia vita e la mia vita è politica, questo mi avevano inculcato i Radicali! Pannella fu così entusiasta che fece trasmettere la mia performance tutta la notte, a ripetizione, su Radio Radicale. Scoppia il caso. Costanzo mi chiama per esporre le ragioni della Lista Pannella a Elettorando. Ci vado con addosso un cappottone gonfio di Millelire: Costanzo mi chiede perché avrebbero dovuto votarmi e io mi faccio esplodere in una pioggia di libri. Pannella, quella volta, non fu affatto entusiasta. Da quel momento mi ritirai dalla vita pubblica; mi salvai la vita.”

1996: tra le centinaia di manoscritti che riceve, Baraghini ne trova uno inviato da William Andraghetti, condannato per pedofilia. 250 cartelle che passate a un vaglio esasperato diventano 100. “100 pagine di verità: le pulsioni di un pedofilo, la sua storia, le motivazioni per giustificarsi o per essere condannato. Per la prima volta parlava l’ultimo degli avanzi di fogna. Decisi di editarlo col titolo esplicito: Diario di un Pedofilo.” Piovono critiche da tutte le parti, durante la prima presentazione con l’autore scatta un’aggressione. “Fu lì che decisi di raccontare per la prima volta la mia storia personale di abusi. Gli aggressori si fermarono.” Il libro vende 5mila copie, in poche settimane. Andraghetti viene invitato in televisione da Enzo Biagi.

Nel frattempo, grazie ai Millelire, il bilancio della società che gestisce il marchio di Stampa Alternativa passa da 600 milioni a diversi miliardi di lire, in due anni. Baraghini, quando tutti si attendono un aumento dei prezzi, s’inventa le Centolire: libri che propone di vendere alle librerie in risme da 400. Ogni foglio un libro, con le istruzioni per montarlo sui margini: 100 lire l’uno. La provocazione non viene raccolta commercialmente. “Era troppo. Ci fu una levata di scudi da tutte le parti”. Poi la crisi irreversibile e traumatica, fino alle soglie del fallimento: la società si salva entrando in liquidazione. “I miei Millelire potevano sconquassare l’establishment culturale, quindi sociale, quindi esistenziale. Sono stato sconfitto quando abbiamo accettato – in conseguenza del successo planetario – le regole del mercato, anche se le avevamo forzate fino alle soglie di una rivoluzione del mercato. Ci siamo arrivati vicini. Stavamo per sfondare la porta e dilagare. Ma siamo stati sconfitti.”

Ora Baraghini è all’inizio della sua quarta vita: quella dei Bianciardini – libri che costano “almeno un centesimo” – e quella dell’innamoramento per internet. “Voglio riscrivere le regole del mercato, quelle attuali hanno prodotto macerie. Le voglio riscrivere dalla parte del lettore, prima che sulle macerie spargano il sale. Perché un’opera è un bene collettivo, di liberazione. Va oltre il mercato.”

Nei cinque giorni in cui sono stato a casa sua, Marcello era alle prese con l’editing di un instant book. Gli hanno raccontato di alcune capanne costruite sulla spiaggia a Marina di Grosseto con i rami restituiti dal mare; e che il comune voleva abbatterle. Ha chiamato una scrittrice, Roberta Lepri, l’ha mandata a intervistare gli abitanti temporanei. Ieri pomeriggio mi ha chiesto un parere su questo testo da collocare in quarta di copertina: “La capanna è quel luogo fisico in cui la metafisica prende il sopravvento. La capanna è mia quanto tua, nostra quanto loro. È di tutti e perciò di nessuno. La capanna è bella e basta. Facciamocela bastare.”

Mentre sono a letto lui dev’essere già in libreria, a parlare con la scrittrice. Sono le 9.30.

Mi tiro fuori dalle coperte. Mi lavo la faccia. La tramontana sbatte contro la finestra del bagno; è cinque giorni che non dà tregua. Apro la botola e scendo. Marcello non c’è. Metto su un caffè. Mi siedo al tavolo della cucina. Di fronte, attaccato alla mensola, c’è un biglietto scritto a mano: “VIVI IGNORATO, Epicuro”; la scrittura è quella di Marcello, sembra un monito a se stesso.

Mentre bevo il caffè, ascolto l’ultima registrazione. Risale a ieri sera.

“Per fare la rivoluzione devi essere scientifico, devi prepararti, sapere chi sono i nemici, scattare, essere intraprendente. La mia tecnica è paracula: aspetto le mosse degli altri e, quando vedo la possibilità, inizio a scavargli un tunnel sotto il culo, come i vietcong con gli americani. Oggi il mio tunnel sotto il culo è internet. Io parto da Saramago e Camus, e voglio infilarteli nello smartphone. La gente non legge più, è inutile che ci facciamo le seghe. Ma penso anche: la gente non è insensibile, sta a me toccare le corde giuste. L’ideologia è finita, è un cumulo di macerie: la vera bomba non-violenta è la letteratura. Quella letteratura che ti fa capire che è successo qualcosa che ti sta distruggendo la vita. Io penso ai ragazzi di 18 anni: stanno morendo, muoiono di consumismo. Devono arrivare a Saramago, a Cecità, perché lì dentro c’è tutto, e li può salvare. Ma io non ti posso dire: vai e compra Saramago. Ci arrivo con la citazione che ti entra nello smartphone. Ti faccio arrivare all’opera con la vaselina. Con le magliette che vendo nell’astronave di Strade Bianche: ti indossi la maglietta con la citazione di Saramago, la esibisci, e devi fare uno scontro pazzesco coi tuoi amici, perché di fronte hai Moccia o Fabio Volo. E devi difendere la tua maglietta dalle aggressioni di Fabio Volo. Io devo organizzare guerriglia culturale diffusa in nome di Cecità.”

«Per fare la rivoluzione devi essere scientifico»

Poi si sente la mia voce nella registrazione. Era quasi ora di cena e chiedevo a Marcello perché la sua generazione – quella della rivoluzione, dei capelloni, della lotta armata – è stata sconfitta.

“Volevamo troppo e troppo presto. Non si può passare dall’oppressione all’eden, così improvvisamente. È troppo, non ce la fai a reggere quella tensione, quelle contraddizioni. Poi le droghe prese male, il possesso, e i rapporti interpersonali, soprattutto. Non basta raccontarsi di essere liberi, per esserlo.”

Da qui in poi il ritmo della sua voce rallenta. Si fa cadenzato. È come se Marcello mi sfuggisse, sia troppo ricco di vita, si stia trasformando in una voce.

“Col potere le battaglie si perdono sempre. Il punto è perderle meglio. E farle. Farle sapendo che ragionevolmente si perde. Perdere gioiosamente è una vittoria. E la volta dopo si perderà meno. Questo fa implodere le regole del potere.”

Si sente un fruscio. Poi il rumore di un bicchiere appoggiato sul tavolo. Poi di alcune posate.

La cucina di Baraghini

Nel paese del tempo perso

Il più piccolo borgo d’Italia spunta lungo la costiera che Amalfi (con un sospetto di strapotere) rinomina integralmente, e ne occupa meno anzi molto meno di un chilometro. Se vedete una mezza luna di case bianche sopra un mare che trascolora dal blu al verde; se vedete qualcosa di simile a portico ad archi che regge la strada principale e sotto sotto affonda nella spiaggia, quella è Atrani.

Gli abitanti – quasi novecento – vivono in case addossate l’una all’altra in una stupefacente geografia della risalita. D’altronde, i campi terrazzati – gli scalini sui monti – sono una trovata ingegnosa dell’intera costiera, realizzati quando si rese necessario sostenere le economie legate alla pesca con qualche forma di agricoltura, comunque difficile in una terra che tutta digrada dai monti al mare. Il breve territorio di Atrani è incassato fra i monti Lattari e il golfo di Salerno. Un borgo di pescatori, le cui lampare a sera ancora fanno luce a mare. C’è poi un fiume, il Dragone, una volta perenne e poi ridotto in regime torrentizio, che fa un brontolio sommesso e ogni tanto stanca e spossa la terra. È del 2010 l’ultima terribile onda di fango che trascinò verso il mare tutto quel che trovò.

Gli abitanti – quasi novecento – vivono in case addossate l’una all’altra in una stupefacente geografia della risalita.

Oggi il villaggio – come lo definì Escher nel 1931 – ha riparato la sua ferita, anche grazie alle dedizione con cui ciascuno degli abitanti si occupa del piccolo posto in cui è nato. La sua è una tessitura in cui gli uomini e le cose convivono in un’unica scena e il tempo, qui scandito a lungo, più a lungo che altrove, non corre, incede e qualche volta si ferma. Come sul muro di via Dogi, dove sono stati riportati i versi che Alfonso Gatto dedicò a questa minuscola e sorprendente città bianca.

Raggiungiamo la piazza del paese una mattina assolata di gennaio. Ad attenderci ci sono il vicesindaco Michele Siravo, l’archeologo Francesco Corvino, gli storici Colette Manciero e Salvatore Corniola (hanno tutti meno di quarant’anni) e, soprattutto, Antonio Corvino, il postino ormai in pensione che poco più di un anno fa ha dato la carica al grande orologio del campanile, per l’ultima volta.

È proprio l’orologio pubblico la ragione della visita al borgo. Per centocinquant’anni, infatti, ne ha scandito i ritmi con rintocchi continui. E più ancora, ha regolato le veglie dei pescatori, quando di notte dovevano prendere il mare. Quasi un compagno di bevute, che ha sempre avuto bisogno di un regolatore delle ore (“oraiuolo”). Il 31 dicembre 2015 Antonio lo ha fatto per l’ultima volta.

La sua è una tessitura in cui gli uomini e le cose convivono in un’unica scena e il tempo, qui scandito a lungo, più a lungo che altrove, non corre, incede e qualche volta si ferma.

“Nella mia vita ho fatto il ceramista, il pescatore e poi il postino, fino alla pensione” racconta, mentre ripariamo in uno dei tre bar della piazza. Fuori c’è il freddo delle grandi occasioni, ma il cielo non ha una nuvola, è del colore del mare e chissà quale dei due imita l’altro. “Atrani è sempre stato un paese di pescatori” continua “Fino a quindici anni fa avevamo sette o otto lampare per le alici”.

Quando gli chiedo dell’orologio sembra immalinconirsi. “Ho alzato i pesi del meccanismo per tanti anni e prima di me lo hanno fatto mio padre, mio nonno e il padre di mio nonno. È un bell’orologio, una specie di orgoglio di tutta la costiera, ma non era destinato a Atrani. Doveva andare a Pontone, qui vicino, ma poi cambiarono idea perché batteva prima i quarti d’ora e poi le ore, e quelli di Pontone volevano un orologio che battesse prima le ore”. La grande pendola ha quindi 150 anni ed è uno dei primi orologi dell’Italia unita. È detto del Birecto perché è parte del campanile dell’antica cappella palatina – oggi chiesa del S. Salvatore de’ Birecto – dove al tempo del Ducato d’Amalfi aveva luogo la cerimonia dell’investitura del Duca, con l’imposizione della ‘berretta’.

«Ho alzato i pesi del meccanismo per tanti anni e prima di me lo hanno fatto mio padre, mio nonno e il padre di mio nonno»

“Il meccanismo andava regolato alla stessa ora, per tutto l’anno. Il compenso era di un euro al giorno” prosegue Antonio “Il punto era la forza fisica che ci voleva e la costanza che non ero più in grado di assicurare. Due anni fa sono andato una settimana a Ischia, ma mi richiamarono perché nessuno riusciva a dare la carica. Un’altra volta stavo poco bene e ho dovuto mandare mia moglie a tirare i pesi. Il 31 dicembre 2015 l’ho fatto per l’ultima volta”. Il figlio di Antonio ha interrotto la consuetudine di famiglia, lui fa l’ingegnere a Napoli. E non si è trovato nessuno disposto a farsi carico dell’orologio, non per quella cifra simbolica… È finita così una tradizione che a lungo ha sbalzato il passato nel tempo presente, dando alle giornate un movimento di pendolo.

Antonio Corvino, “oraiuolo”, alle prese con i meccanismi dell’orologio del campanile.

Per saperne di più rivolgo qualche domanda a Francesco Corvino (nipote di Antonio) che ne ha ricostruito la storia attingendo dal fondo dell’archivio comunale. Cita fonti con estrema precisione, mostra documenti, slide, si è molto applicato. Dice che per lui recuperare la storia del proprio paese significa dare un fondamento al suo presente, per non doversene andare, perché vuole restare (Quanti sono i giovani del sud che decidono di rimanere dove sono nati? A volte non possono restare. Altre volte contano di tornare, facendo il giro del tornio. Chi nasce in un paesino del sud mette in conto di doversene andare).

«Due anni fa sono andato una settimana a Ischia, ma mi richiamarono perché nessuno riusciva a dare la carica. Un’altra volta stavo poco bene e ho dovuto mandare mia moglie a tirare i pesi. Il 31 dicembre 2015 l’ho fatto per l’ultima volta»

“Da un verbale del 1865 sappiamo che l’orologio, molto antico, spesso si fermava ed era un problema soprattutto per i marinai e, visto che ogni accomodo era inutile, si pensò di acquistarne uno nuovo. Si trovò un’occasione a Napoli al prezzo di 850 lire (200 ducati). Dopo un anno gli amministratori preferirono un nuovo congegno, con la sfera e il quadrante in marmo più grandi. Per l’occasione fu realizzato un campanile di gusto neoclassico, proprio per contenerlo. Il quadrante dell’orologio a numeri romani riporta la data del 1865, ma i lavori si conclusero in seguito”. Mi spiega poi che il meccanismo alla francese, che faceva suonare le campane di dodici ore in dodici ore e di quarto d’ora in quarto d’ora, fu installato vent’anni dopo ed è rimasto in funzione sino al 2015.

A quel punto decidiamo di andare al cuore stesso dell’orologio. Attraversiamo la piazza e dopo qualche scalino siamo nell’atrio della chiesa del Birecto. Al meccanismo dell’orologio si accede tramite un vano scale sulla destra e, dopo altre scale, si passa per l’uscio ricavato nel campanile, una porticina di legno che sarebbe piaciuta a Lewis Carroll. Ecco l’orologio che guarda il mare. A quell’altezza tutto è incredibilmente vicino: il mare e il cielo sono un unico impasto di blu, mentre la luce del sole sfreccia alla cieca sul bianco delle case.

Dallentro della costa allampia svolta verde di casa rosa Atrani bianca, città dun tempo e dogni giorno è colta dalla sorpresa dessere. (Questi sono i versi di Alfonso Gatto trascritti lungo la via contigua alla piazza).

Michele Siravo, vicesindaco di Atrani.

Il marchingegno dell’orologio è incassato in un armadio realizzato nel 1920 dalla famiglia Corvino e riporta le firme dei “mettenti”, gli addetti alla carica. Ha ruote di bronzo con denti imbruniti e tre cilindri di ghisa torniti. Lo scappamento è ad ‘ancora’ con le brocche di acciaio temperato, mentre il pendolo che pesa dodici chili è sorretto da una molla di acciaio. Il meccanismo si carica con le manovelle e, in origine, aveva una durata di 30 ore, poi diminuita in seguito alla riduzione dell’altezza dei contrappesi.

Ecco l’orologio che guarda il mare. A quell’altezza tutto è incredibilmente vicino: il mare e il cielo sono un unico impasto di blu, mentre la luce del sole sfreccia alla cieca sul bianco delle case.

Quando Antonio Corvino rinunciò al suo incarico e l’orologio si fermò, gli abitanti furono presi da una specie di agitazione. Non riuscivano più a orientarsi. Il tempo, tutto d’un tratto, fuggiva: sugli orologi da polso, sugli schermi degli smartphone, sui computer era un’unica inarrestabile corsa. D’improvviso, i giorni e le notti andavano per conto proprio, mettendo in imbarazzo gli atranesi che non riuscivano a stargli dietro. Cos’era quell’urgenza che saltava fuori da ogni aggeggio, cos’era quel lampeggiare continuo sui display in una sequenza di tempo cominciato e già scaduto? Ai primi del 2016 l’amministrazione comunale corse ai ripari con un meccanismo elettronico, ma dopo un mese le lancette dell’orologio si fermarono alle 13.10, senza più volerne sapere.

Filippo Vissicchio, affittacamere

Nessun tecnico fu in grado di riparare il guasto. Qualcuno sospettò che vi fosse dietro la mano mancina di qualcuno interessato a non disturbare i turisti, i quali a dire il vero protestavano spesso contro lo scampanio che si ripeteva ogni quarto d’ora (un rintocco per il primo quarto, due per la mezz’ora, tre per i tre quarti, quattro per l’ora compiuta, in aggiunta al rintocco specifico dell’ora; così, per esempio, i dodici rintocchi del mezzogiorno e della mezzanotte si ripetevano ogni quindici minuti seguiti da quelli dei quarti d’ora. Insomma, una faccenda davvero intricata). A settembre i nativi cominciarono il dissenso: volevano indietro il tempo che conoscevano bene, quel tempo che potevano anche perdere perché il loro orologio gentile lo avrebbe riacciuffato al quarto d’ora successivo. Non stava né in cielo né in terra ‘sta cosa del tempo elettrificato e da polso.

Fu definitivamente installato un meccanismo automatico, ma con una correzione sui rintocchi: da quel momento le ore sarebbero state scandite solo allo scoccare della stessa e non più ogni quarto d’ora. A dirla tutta un po’ di malumore restò. Il suono noto era tornato, certo, ma non era come quando la carica veniva data a mano e si sentiva il segnale allegro e inopportuno di tutta la sacra ruota delle ore… “Il meccanismo elettronico è il solo possibile – spiega il vicesindaco – visto che non si è trovato nessuno disposto a continuare la tradizione dei Corvino per un euro al giorno. A volte la gente si lamenta senza sapere le cose”.

Quando Antonio Corvino rinunciò al suo incarico e l’orologio si fermò, gli abitanti furono presi da una specie di agitazione. Non riuscivano più a orientarsi.

Ci spostiamo per le vie strette del borgo, è ormai pomeriggio. Ci aspettano i vicoli stretti che bisogna percorre in fila indiana, sono le strettoie (o strettole) di tanta parte dell’Italia più nascosta, quella dei piccoli posti. E poi gli ottocento scalini che conducono alla parte alta del paese, con le sue chiesette rupestri e l’antico cimitero, dove c’è la botola in cui venivano gettati i corpi degli appestati e dove, talvolta, gli appestati ancora in vita sedevano in attesa di morire (il corpo morto e pesante sarebbe andato giù, fra gli altri corpi morti, di giovani, di vecchi e di bambini).

Michele Siravo mi parla di Escher, che raffigurò Atrani nelle sue Metamorfosi e in due opere poco note: Dilapidated houses (case in rovina) in Atrani e Covered alley (vicolo coperto) in Atrani, entrambi del 1931. Alle Metamorfosi si ispira l’installazione che ogni anno, da fine novembre, illumina la piazza del borgo. “Tornate il prossimo Natale, vedrete che bello” dice Siravo, mentre la comunità vestita a festa come fosse domenica si raccoglie nella piazzetta. Stanno per togliere le luci all’albero, è il 18 gennaio, qui gli addobbi restano a lungo, più a lungo che altrove (ma questo ormai lo sappiamo).

Nelle retrovie desuete di Atrani c’è aria di cose semplici, di cose buone: è il lato più autentico del mondo, quello opposto ai luoghi frodati, privati della loro anima, dove ogni cosa cambia in fretta perché il nuovo avanza all’infinito. Entrare in un luogo senza intuirne l’anima segreta, talvolta clandestina, è come entrare in un centro commerciale: se ne è esce più tristi e poveri di prima. Se il luogo non è abitato, saranno le pietre a svelare qualcosa, ma occorre silenzio e una certa insensatezza: bisogna lasciare che la fantasia si cristallizzi. Se il luogo invece è abitato, alle cose si sovrappongono le voci degli uomini. Per la mia esperienza, meglio fare poche domande e restare a guardare. Se si aspetta con pazienza può accadere che qualcosa si riveli e quasi sempre sbaraglia ciò che gli uomini raccontano con sollecitudine.

Nel mio tempo ad Atrani, l’anima del luogo l’ho vista negli occhi dei suoi giovani che hanno deciso di restare, anche se faticano a mantenersi e devono appoggiarsi ai genitori – il peggio è d’inverno, quando non si vede un turista. Bisognerebbe raccontare al turista, e più ancora al viaggiatore che non conosce questo soggiorno tranquillo, l’effetto del bianco sul blu, dei muri con dentro i limoni, dello scoppio della magnolia al tramonto. E poi bisognerebbe dirgli di tornare quando gli altri se ne andranno, perché la città bianca lo reclama.

Escher raffigurò Atrani nelle sue Metamorfosi e in due opere poco note: Dilapidated houses (case in rovina) in Atrani e Covered alley (vicolo coperto) in Atrani, entrambi del 1931.

I due giovani storici, Colette e Salvatore, hanno imparato forma, consistenza, storia di ogni pietra e grotta, di ogni arco e navata delle chiese del paese, sono cinque. Hanno la loro epica, le piccole epopee da raccontare. La madre di Masaniello è nata qui, tengono a farmi sapere. Forse ci passò Masaniello in persona, in una notte di fuga. È tutto ciò che abbiamo, dicono in coro. E in quel momento sembrano evocare una solitudine che li precede e li opprime teneramente. Un filo molto sottile di tristezza… sì lo vedo. Come si fa, sembrano dire, come si fa a vivere in una terra – il sud, l’Italia tutta – che ti trattiene e allo stesso tempo ti riscaccia, mentre ancora si attende la bella aurora? Senza accorgercene, animiamo un sistema di specchi rotatori.

Appoggiata sul tavolo della cucina di Antonio Corvino, una foto che ritrae il padre; anche lui fu “oraiuolo” di Atrani.

Racconto loro che sono nata in un paese, fra certe montagne a strapiombo, su per le balze a picco dell’Appennino meridionale. La mia terra non ha monumenti di tempi antichi, i resti di una qualche grandezza, non ha neppure il mare, e si sta spopolando. Per sempre sarò parte di quel mondo a parte. Tuttavia, a me è mancato ciò che loro mostrano di avere in abbondanza, qualcosa che ha a che fare con il coraggio di restare. Ci sarà da qualche parte un pozzo dove finiscono i ritorni mancati? O un museo, sì forse un museo, come quello degli amori finiti.

La mia terra non ha monumenti di tempi antichi, i resti di una qualche grandezza, non ha neppure il mare, e si sta spopolando. Per sempre sarò parte di quel mondo a parte.

Andiamo verso la fontana che occupa una risicata penombra nella piazza. La indicano come se non desse acqua ma un nettare dolcissimo, una qualche meraviglia. “Il problema sono gli inverni – spiega Siravo- quando mancano i turisti. D’estate invece i nostri trenta b&b sono sempre al completo”. Lui s’ingegna: anima associazioni, studia, raduna intorno a sé i giovani, che lo seguono, ne apprezzano lo spirito d’iniziativa. “Vorrei che restassero” dice. “Io resterò. Ho portato qui la mia fidanzata che è nata a San Paolo”.

Dal Brasile a Atrani, da quella vastità di superficie a uno dei paesi più piccoli al mondo. C’è qualcosa di impalpabile nell’aria: quando tutte le cose si toccano, quando la calma diventa quiete, qualcosa trattiene il viaggiatore, che vorrebbe non andarsene più. Noi però dobbiamo andare, dopo aver salutato per prima fra tutti la grande pendola al campanile, perfettamente funzionante. Alessio, il bravo fotografo che mi accompagna, cattura gli istanti in immagini che sono già fuori del tempo (dagherrotipi, lo si crederebbe mai?).

Walter Benjamin scrive che nella Comune di Parigi i comunardi sparavano agli orologi: «Quando scese la sera del primo giorno di battaglia, avvenne che in molti luoghi di Parigi, indipendentemente e nello stesso tempo, si sparasse contro gli orologi delle torri. Un testimonio oculare, che deve forse la sua divinazione alla rima, scrisse allora: “Qui le croirait! on dit, qu’irrités contre l’heure / De nouveaux Josués au pied de chaque tour / Tiraient sur les cadrans pour arrêter le jour”. Chi l’avrebbe creduto, che fossero così arrabbiati contro il tempo / Novelli Giosuè, ai piedi di ogni torre / Tiravano sui quadranti per fermare il giorno».

Gli Atranesi, al contrario, tengono all’orologio come a se stessi, sono parte di quei rintocchi, di quel rumore uggioso e facile che li ricompensa ricordando che di tempo ce n’è ancora parecchio. È l’attaccamento al luogo: qualcosa di profondamente necessario e, a questo punto della storia, ugualmente rivoluzionario, perché frutto di una scelta che richiede amore.
 

Zingonia è il futuro


“Io sono la periferia di una città inesistente, la chiosa prolissa di un libro non scritto. […] Sono una figura di un romanzo ancora da scrivere, che passa aerea e sfaldata senza aver avuto una realtà, fra i sogni di chi non ha saputo completarmi.”
da Il libro dell’inquietudine, di Fernando Pessoa

Ciserano, inizio anni ’60. Sulla Francesca, la strada che taglia in due il paese e che anticamente congiungeva Milano e Aquileia, viene eretto un enorme cartello. Un uomo illustrato, giacca e cravatta, capelli e baffi chiari, indica una scritta: “Qui nasce Zingonia, la nuova città”. Quello che oggi gli esperti di comunicazione chiamerebbero un “teaser”, un’anticipazione di qualcosa che sta per arrivare ma ancora non si sa cos’è.

Pochi anni dopo Zingonia esiste. “È una città. Una città nuova di zecca. L’ultima nata in Italia, costruita dal nulla. […] Quando sarà finita, fra quattro o cinque anni, potrà ospitare 50.000 abitanti, lo stesso numero su cui è stata progettata Brasilia”, dice un enfatico servizio RAI, accompagnato da meravigliose riprese della città e dei suoi modernissimi spazi. Il futuro. A idearlo Renzo Zingone, un visionario, un imprenditore, un Olivetti dell’edilizia, che però non somiglia all’uomo del cartello: è un signore di mezza età, calvo, l’accento romano mascherato da un tono quasi robotico. Pronuncia le parole “stabilimenti”, “comodità”, “prospettive”, da bravo venditore di un prodotto, di una brochure bancaria, ma fatta di cemento, strade, capannoni che stravolgeranno per sempre l’identità del territorio.
Sono passati cinquant’anni e i termini con cui Zingonia viene descritta sui media non sono più gli stessi: “le torri del degrado”, “da polo residenziale a suk”, “cumuli di rifiuti e spaccio a cielo aperto”, “disperazione”, “paura”.

Il pensiero condiviso da gran parte del popolo è più salviniano: “Zingonia fa schifo, tutto da buttar giù”. Gli stranieri, “i musulmani”, “i marocchini”, tutti a casa.

I più illuminati guardano al passato e danno la colpa al masterplan originale, che prevedeva una città divisa su cinque comuni e dunque praticamente ingovernabile. Il pensiero condiviso da gran parte del popolo è più salviniano: “Zingonia fa schifo, tutto da buttar giù”. Gli stranieri, “i musulmani”, “i marocchini”, tutti a casa.
Ma avvicinandoci alle spaventosissime torri, entrando nei bar, nelle case, nelle scuole, abbiamo scoperto che anche se l’utopia di Zingone è fallita, oggi Zingonia è un laboratorio sociale complesso e sorprendente: e se avrà l’attenzione che merita, potrebbe diventare una delle prime molecole del futuro di Bergamo. E non solo.

Barbara 1 – Palazzo che si affaccia su Piazza Affari

Fu costruito nel 1969, anno dell’allunaggio dell’Apollo 11.
“Il “Barbara 1” era il clou di Zingonia: un palazzo destinato ai dirigenti delle aziende, con soluzioni avveniristiche per l’epoca: tutti gli appartamenti avevano una porticina dove infilavi il sacchetto della pattumiera. E poi qui intorno c’erano servizi, c’era il verde, c’era il tennis club dove venivano attori e personaggi famosi da tutta Italia, c’erano le serate danzanti del Bar Piccadilly, ci racconta Roberta Galluzzo, che è arrivata qui nel 1992.

Il Barbara 1 oggi è abitato da un centinaio di condomini, quasi tutti stranieri: senegalesi, pakistani, marocchini, qualche indiano e nigeriano. In pochi pagano le bollette e il mutuo. Ma i guai sono iniziati con gli inquilini degli attici, tutti e due morosi e di nazionalità italiana: “Quando la signora è andata fuori di casa le ho gridato «Barbona vai fuori dai coglioni!» dal balcone, eh figaro, trentamila euro di mutuo non pagato aveva lasciato”. E ora? “Dobbiamo andare a bussare casa per casa, a volte chiedi dieci euro e ti dicono che non ce li hanno, son dentro in venti, lavorano tutti e non hanno dieci euro! È una battaglia quotidiana”.

Qualche anno fa per 20 giorni è stata tolta l’acqua, “Ero disperata, non sapevo come fare. Loro, le donne africane, andavano alla fontanella pubblica e si caricavano tranquillamente venti litri sulla testa ma io non ce la facevo”. Roberta vive al settimo piano, e deve per forza arrivarci a piedi perché dal gennaio del 2004 l’ascensore non funziona: “Mia mamma sono undici anni che non viene qua”.

Il Barbara 1 oggi è abitato da un centinaio di condomini, quasi tutti stranieri: senegalesi, pakistani, marocchini, qualche indiano e nigeriano. In pochi pagano le bollette e il mutuo. Ma i guai sono iniziati con gli inquilini degli attici, tutti e due morosi e di nazionalità italiana.

Sempre nel 2004, un giorno le arriva una lettera dalla società che gestisce il gas: per il “principio di solidarietà” (legge rimasta in vigore fino al 2013) avrebbe dovuto pagare lei i 36.000 euro di bollette arretrate del condominio, pena il pignoramento della casa. Roberta ingaggia una battaglia legale, coinvolge l’Eco di Bergamo, l’articolo esce in prima pagina, lei la fotocopia e la manda a tutte le testate nazionali. Scrive a Scalfaro, riesce a contattare il ministro Castelli, il Senatore Valerio Carrara (IdV) va a casa sua. Tira in piedi un casino tale che alla fine la società del gas rinuncia a rivalersi su di lei, madre single con una figlia minorenne a carico: “Dalla sede francese hanno capito che umanamente avevano toppato”. Roberta, comunque, esce da tutta la vicenda provatissima: “Ci ho rimesso personalmente, mia figlia era esaurita, il mio fidanzato se n’è andato, loro davano la mia battaglia per persa”.

Anche oggi, con l’assegno di disoccupazione in scadenza a maggio, Roberta continua a lottare per sé, per il condominio e per Zingonia. È stata lei a contattare la cooperativa che gestisce il progetto “Zingonia 3.0”, che con la collaborazione di tante persone tra cui Maurizio Bianzini, amministratore di condominio impegnato nel sociale, e Giuseppe Maci, sindaco di Verdellino, ha lanciato un progetto di recupero partecipato del condominio: con l’aiuto di alcune imprese della zona e la collaborazione di molti inquilini, sia italiani che stranieri, sono stati aggiustati i citofoni, la porta, sostituiti i vetri rotti, reimbiancate le pareti. Salendo le scale abbiamo incontrato Madiop Mbaye, Mussa Diop, Kane Papa, Nyang Pathem, Diop Mustapha, senegalesi, e Rizwan Butt, pakistano che vive al quinto piano e somiglia un po’ a Giovanni Lindo Ferretti. Ci ha fatto entrare in casa e offerto del tè cremoso mentre alla tv davano soap indiane. Non abbiamo parlato tantissimo, però abbiamo capito che era un tipo di una tranquillità estrema. Un estremista della tranquillità.

Signora Rito – 72 anni, ex proprietaria dell’albergo Piccadilly

La casa della signora Giovanna Rito, al secondo piano del palazzo Barbara 1, è una bolla dentro il mondo di Zingonia. Un appartamento curatissimo, completamente ristrutturato: i due balconi, trasformati in verande chiuse (“Così posso stare tranquilla anche con quelli di sopra che buttano giù di tutto”), ricordano un po’ gli ambienti delle case inglesi, con piante, sedie e tavolini da tè. La signora Rito e suo marito Osvaldo Trottolo, tarantini, sono arrivati qui nel 1971: “Mio marito lavorava già in un albergo a Napoli e gli fecero la proposta di diventare direttore del Piccadilly. Quando vidi questo viale stupendo, pulito, gli alberi bassi, un verde che nelle città non si vede, io mi innamorai subito”. Si trasferirono e dopo pochi anni acquistarono l’albergo, il bar e due appartamenti, in blocco: “Allora si facevano le cambiali”.

La signora Giovanna ci mostra alcune foto di una giornata di metà anni ’70 in cui posa con il suo cagnetto di allora, “Bimba”, all’interno dell’albergo; immagino le moquette e le tappezzerie optical sbiadire e venire sostituite da più sobri parquet, piastrelle e tessuti con motivi floreali che compaiono in un volantino degli anni ’90. Infine, nel 2006, è la signora Rito a sparire dalle foto: otto anni fa albergo, bar e appartamenti sono stati venduti a degli egiziani. Ma lei non è riuscita ad andare via da Zingonia: “Ho visitato appartamenti anche da altre parti ma non erano belli come questi. E poi mi sentivo un’estranea”. La signora Rito partecipa ai lavori di sistemazione del Barbara 1 al fianco degli altri condomini, sembra fiduciosa nel futuro: “Le cose cambieranno, adesso iniziamo a fare le cose piccole, un po’ per volta”.

“Quando vidi questo viale stupendo, pulito, gli alberi bassi, un verde che nelle città non si vede, io mi innamorai subito”

Zingogang – duo hiphop

“Ci conosciamo fin da piccoli, siamo nati tutti e due il 2 febbraio. Tra pochi giorni faremo 20 anni”, racconta Mr. Tao, uno dei due membri della Zingogang, gruppo hip hop che spopola a Zingonia ma anche su YouTube.

Tutti qui li conoscono e li ascoltano, dagli spacciatori ai ragazzi che frequentano la scuola di Verdellino-Zingonia (nella classifica personale di Amin, uno dei figli di Kacem – di cui si parla più avanti -, la Zingogang è al primo posto davanti a Fibra e Emis Killa).
Mr. Tao (Redion Gangi) ricorda un po’ Gué Pequeno ma è più simpatico, M-Boss (Mohamed Sy) è un ragazzo dagli occhi timidi e ci tiene a non essere accomunato a Bello Figo Gu: i suoi testi sono decisamente meglio (es. “Più spacco e più mi odi / Negro al 100% / Svizzero? / No, Novi”).

Tutti qui li conoscono e li ascoltano, dagli spacciatori ai ragazzi che frequentano la scuola di Verdellino-Zingonia.

Li incontriamo al bar Silver e chiacchieriamo del più e del meno, dagli Illuminati che secondo loro governano il mondo ai progetti per il futuro. L’approccio alla musica è iper-imprenditoriale e consapevole: Lorenzo, loro amico e manager, spiega che l’obiettivo della Zingogang è arrivare al successo ma senza compromessi e senza rinunciare all’identità di zingoniesi, e sa benissimo che non sarà facile. I video delle canzoni alternano a momenti di classico immaginario hip-hop (soldi club pistole macchinone ragazze etc.) scene di vita di gruppo un po’ gangsta e un po’ tenere.

Redion, Mohamed e Lorenzo non hanno problemi ad ammettere di essere dei ragazzi tranquilli. “Per noi l’amicizia è tutto. Zingonia ci ha resi uomini, ci ha fatto crescere, è anche merito della multicultura. Noi siamo stretti, uniti come una famiglia. E quando sbucheremo potremo dire che ci siamo fatti da soli in un paese dove c’era la crisi”.

Alberto – 44 anni, insegnante di religione

Da sette anni Alberto Daminelli insegna storia della religione alla scuola media di Verdellino-Zingonia. Siamo andati a trovarlo dopo aver letto del suo progetto “Molte fedi sotto il cielo di Zingonia”, in cui gli alunni della scuola, che ha una delle percentuali di ragazzi stranieri più alte in Italia (il 45%), hanno costruito i modellini dei luoghi di culto di molte religioni del mondo. Le piccole chiese/pagode/moschee/templi sono esposte nell’atrio. “È uno dei modi che uso per favorire il dialogo e coinvolgere tutti i ragazzi, soprattutto i musulmani. I loro genitori all’inizio vedevano l’ora di religione come un momento d’indottrinamento, ma poi sono riuscito a convincerli a rimanere in classe, ovviamente se la lezione non è all’ultima ora”, ride. Alberto è una persona di estrema sensibilità, capace di farsi carico delle contraddizioni che emergono ogni giorno lavorando con classi miste. Mi sfiora un pensiero quasi utilitaristico: umani come lui sono necessari perché, come degli airbag, riescono ad assorbire gli urti inevitabili tra diverse culture, e attutirne il dolore. Durante la conversazione affrontiamo anche un tema ostico, quello della condizione delle donne musulmane, e di come viene vissuta in classe.

Gli alunni della scuola, che ha una delle percentuali di ragazzi stranieri più alte in Italia (il 45%), hanno costruito i modellini dei luoghi di culto di molte religioni del mondo.

“Da parte delle ragazze italiane c’è rispetto e solidarietà verso le ragazze musulmane. Non ho mai capito se dall’altra parte questa solidarietà viene vissuta come pietà… Vedo i loro occhi, a me piace guardare le relazioni delle persone negli occhi, da una parte c’è rispetto, dall’altra penso… Se avessero la possibilità di togliersi il velo se lo toglierebbero subito”. Ma esiste una soluzione? “Io penso che anche l’Islam prima o poi attraverserà un processo come quello attraversato dal cattolicesimo con l’Illuminismo, noi possiamo solo aspettare”.

Don Alberto – 38 anni, curato

“Una volta dicevo «Vorrei andare in missione», e ci sono arrivato, anche se non sono andato lontano”, ride Don Alberto, di Dalmine (frazione di Sforzatica Santa Maria), dal 2011 curato di Zingonia.

“Quando m’han detto che mi avrebbero trasferito qui sinceramente non ho pensato a nulla, se non che ci passavo tutti i sabati con la moto. Non avevo pregiudizi; solo mio papà era un po’ preoccupato vista la fama del paese”. Invece “l’accoglienza è stata molto calorosa, anche perché Zingonia è molto diversa da Verdellino, che è un classico paese bergamasco. I parrocchiani vengono quasi tutti dal sud Italia, sono arrivati negli anni ’60, con la prima ondata di immigrazione”.
E con i musulmani che rapporto c’è? “Non c’è molto contatto. Non ci vediamo con gli Imam, però in parrocchia cerchiamo di essere aperti al dialogo interreligioso, per esempio ora forse faremo un corso di arabo. Sono operazioni che bisogna sempre condurre con grande sensibilità e attenzione”.

“Una volta dicevo «Vorrei andare in missione», e ci sono arrivato, anche se non sono andato lontano”

Don Alberto è un personaggio incatalogabile: un po’ Grande Lebowski un po’ biker (ha un’Harley Davidson che sta facendo aerografare, ci fa vedere al computer i layout della scritta “God Bless You”), conduce un’esistenza fatta di emozioni molto intense, come quando visita le case del posto “che ricordano le baraccopoli del Sudafrica o della Colombia, dove ho fatto esperienze in passato”, alternate anche a momenti di vuoto e solitudine, soprattutto dopo una certa ora: “Il primo giorno qui me lo ricordo bene: ero arrivato da Romano di Lombardia, dove all’oratorio c’è sempre un viavai di persone, a un quarto alle nove sono uscito a fumare una sigaretta. Il deserto. Ho pensato «E adesso che faccio?».

Kacem – 44 anni, barista

Il bar Marrakech affaccia su Piazza Affari, quella che una volta era il “ritrovo chic” di Zingonia. Kacem, il barista, ci ha accolto da subito con un gran sorriso e ci ha offerto diversi bicchieri di buonissimo tè alla menta. “Ho capito subito che siete giornalisti”, ci ha detto, “Qui entra un italiano ogni sedici giorni. E di solito è uno della Finanza”. Kacem è un gran parlatore, la sua famiglia, ci racconta, è importante a Fès, una famiglia con una tradizione di sinistra. “Abbiamo la politica nel DNA: mio fratello è un membro del «Partito Democratico» del Marocco”, l’Unione Socialista delle Forze Popolari (USFP). “Nel 1990 di notte appendevo manifesti per le strade e ho partecipato allo sciopero generale contro il governo. Abbiamo bruciato tutta la città, un casino. Sono stato in prigione tre giorni, mi hanno riempito di botte. Rischiavo 15 anni”.

Kacem è in Italia dal 1995 e ha sempre lavorato nell’edilizia come libero professionista, “Avevo seminato un buon raccolto, poi nel 2008 è arrivata la grandine”

Kacem è in Italia dal 1995 e ha sempre lavorato nell’edilizia come libero professionista, “Avevo seminato un buon raccolto, poi nel 2008 è arrivata la grandine”, cioè la crisi, “e allora per non rimanere a casa ho deciso di prendere il bar. Ma vorrei tornare a fare il mio lavoro, gestire le persone che vengono qui è faticoso, ci sono anche quelli che sputano per terra, succede davvero, io mi vergogno. Vorrei che tutti si comportassero in modo civile”. Kacem abita in una delle “quattro torri”; ci ha invitato a casa sua, dove abbiamo conosciuto tutta la famiglia: la moglie Karima, i figli Amin, Youssef, Najwa, Maryem, Nisrin. Anche se mancava il riscaldamento c’era molto calore. “L’anno scorso siamo tornati in Marocco con l’intenzione di restarci. Ma ai ragazzi non piaceva, non volevano vivere lì, e io penso che sia giusto far decidere a loro, l’unica cosa che si può fare è guidarli con il buon esempio”.

Conclusione – Un’intervista a Renzo Zingone del 1973

“Il bilancio dei primi dieci anni si chiude in maniera decisamente favorevole e l’ottimismo che ha guidato l’iniziativa di Zingonia in partenza è ancor più rafforzato.

Il successo di Zingonia va ricercato nell’aver avuto la capacità e la forza di essere riusciti a concentrare in un’unica zona, in un arco di tempo breve, una così grande quantità di industrie e commerci. La sua unicità consiste nell’essere stata integralmente studiata, promossa e realizzata da un privato, sia negli aspetti tecnici, e – soprattutto – in quelli economici. La ZIF (Zingone Iniziative Fondiarie), la società iniziatrice di Zingonia, ha corso il rischio integrale dell’operazione, senza ricorso al denaro pubblico.

L’obiettivo era stato quello di creare, in una zona d’Italia depressa, una trasformazione radicale: da una zona a prevalenza agricola a zona industriale e commerciale; e le finalità della creazione di Zingonia si possono ricondurre a tre punti fondamentali:
–           combattere il pendolarismo, uno dei peggiori mali del secolo. L’idea era quella della casa-lavoro, ovvero mettere il lavoratore in condizione di avere il lavoro vicino alla sua abitazione. E, in effetti, oggi a Zingonia molti vanno al lavoro semplicemente attraversando la strada o affluendovi dai paesi vicini.
–           creare nuovi posti di lavoro solidi e duraturi, nella misura di decine di migliaia, trasformando così un’area economicamente depressa in una zona vivace e attiva, e questo è un fattore di grande importanza sociale.
–           realizzare un’enorme quantità d’infrastrutture e di opere pubbliche (rete stradale, fognaria, acquedotto, illuminazione stradale, fontane, ecc.) predisposte per un’intera città di 50 mila abitanti, che poi rimarrà in eredità ai comuni sui quali poggia il territorio di Zingonia.

Sebbene i traguardi del progetto non siano stati integralmente raggiunti – dovuto ai problemi rappresentati delle innumerevoli crisi che si son succedute in Italia in questi dieci anni e delle divergenze politiche dei cinque comuni sui quali poggia il terreno – Zingonia resta un’iniziativa unica nel suo genere, che non trova riscontro né in Italia né in Europa, né in altre parti del globo.”

[testo estratto da Zingonia, la nuova città]

“Zingonia resta un’iniziativa unica nel suo genere, che non trova riscontro né in Italia né in Europa, né in altre parti del globo.”

Per approfondire

Zingonia, la nuova città – testo originale edito dalla Zingonia Iniziative Fondiarie nel 1965, riedito nel 2014 da Argot ou la Maison Mobile e Marco Biraghi
G. Sinatti, Zingonia, Vecchi e nuovi abitanti, vecchie e nuove questioni, consultabile online su Academia.edu
G. Sinatti, Città senegalesi: il caso di Zingonia, in Afriche e Orienti, n.3, 2005, pp. 27-40
Zingonia a venti anni dalla fondazione, Riunione Immobiliare spa, Ferrari, Clusone, 1986
L. Airaldi, Renzo Zingone, Due casi di pianificazione urbanistica provata: il quartiere Zingone di Trezzano sul Naviglio e Zingonia, in Storia Urbana, n. 15, 1981, pp. 91-130
 

Qui vive un ebreo e massone

L’iniziato alla massoneria riceve una semplice toga bianca. In seguito, scalando i gradi, gli abiti si fanno più ricercati. Giuseppe Ivan conserva il suo, associato al 33esimo grado Sovrani Ispettori Generali, in una valigetta di pelle.

Uno

«Per prima cosa ti chiudono in questa cameretta tutta dipinta di nero. C’è una luce fioca, sufficiente a vedere solo qualche elemento disposto all’interno: un pezzo di zolfo, un gallo, una clessidra, un teschio. Il gallo è di porcellana. C’è una scritta: “V.I.T.R.I.O.L.”. Il tono è misterioso, ma basta riprodurla su Google: “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem”, Scavando in profondità e setacciando la terra troverai la pietra nascosta. Un’altra scritta appena sotto: “Se sei venuto qui per curiosità, vattene”».

È la mattina del giorno dopo il sabato. Appartamento su due piani, sito in Milano 3, Residenza dei Salici. Io reggo tra le mani un softbox, quella specie di ombrello collegato al flash che usano i fotografi per illuminare il soggetto senza rendere la luce troppo accecante e artificiale. Lo punto su di lui: si chiama Giuseppe Ivan Lantos, nato a Tangeri il 18 novembre 1942. È completamente nudo, fatta eccezione per una bombetta nera che gli copre e contiene pene e testicoli, il resto è un corpo di un settantaseienne esposto alla luce morbida che io gli indirizzo contro, per agevolare il lavoro al fotografo che è venuto con me qui. Ogni tanto si sente il click dello scatto e parte il flash. Giuseppe Ivan Lantos pare a suo agio, anche con il culo fuori, mi sta raccontando con grande abbondanza di particolari com’è avvenuta la cerimonia di iniziazione nella loggia massonica di cui fa parte da 35 anni.

«Lo stanzino nero si chiama, tecnicamente, gabinetto di riflessione. Quando entri, ti danno un foglio con tre domande. 1. “Chi sei?” 2. “Cosa è per te la patria?” 3. “Cosa è per te l’umanità?”. Le risposte costituiranno il tuo testamento massonico».

Gli chiedo quanto tempo ti danno per rispondere a quelle tre domande.

«Un quarto d’ora. Dopo di che arriva un tizio incappucciato, vestito di nero. Tu aspirante vieni bendato, e quello ti mette un cappio al collo e ti trascina come un animale all’interno del Tempio. Entri. Senti delle voci. Che si alzano di tono e si trasformano in un frastuono assordante. Poi si attenuano. Infine il silenzio. Che viene rotto da una domanda, pronunciata con tono poderoso: Perché nome-e-cognome vuole entrare a far parte della nostra loggia eccetera-eccetera-eccetera?»

La loggia di cui è membro Giuseppe Ivan è la Gran Loggia d’Italia degli ALAM, distaccatasi dal Grande Oriente d’Italia nel 1908. Sede centrale a Roma in via San Nicola de’ Cesarini, 3; sede milanese – quella che frequenta Giuseppe Ivan – in via del Progresso, 3. Alcuni personaggi celebri ad essa affiliati nel corso dei decenni: Curzio Malaparte, Hugo Pratt, Gabriele D’Annunzio, Antonio de’ Curtis meglio noto come Totò.

«A quella domanda risponde il tuo accompagnatore. E la risposta è fissa: Perché è un uomo libero e di buoni costumi».

Gli anelli con simboli massonici si possono acquistare su Amazon. Ma anche nello shop della Freemason’s Hall di Londra, dove li ha acquistati Giuseppe Ivan.

Potrebbe mettersi una mano davanti agli occhi? Chiede il fotografo. Io resto immobile attento a non deviare il fascio di luce dal corpo di Giuseppe Ivan, che continua a raccontare, guardandosi il palmo della mano.

«Sempre lo stesso tizio, che poi è il Maestro Venerabile, pone un’altra domanda al tuo accompagnatore. E cosa chiede a noi nome-e-cognome? Altra risposta fissa: La mezza luce. A quel punto vieni sbendato. Il Tempio è semibuio. Sono tutti incappucciati. Segue una trafila di altre domande, fino all’ultima. Arrivati alla fine di questo percorso, cosa chiede a noi nome-e-cognome? E l’accompagnatore: Chiediamo per lui la piena luce. Tutti si tolgono il cappuccio, l’accompagnatore ti toglie il cappio dal collo, si accendono le luci, parte una musica trionfale. Sei diventato “apprendista”. A quel punto puoi partecipare alle riunioni di loggia, ma standotene zitto per un anno. Quando vieni elevato al grado di “compagno” puoi iniziare a parlare durante le sedute. I gradi nella mia loggia li ho ricoperti tutti, fino al 33esimo, l’ultimo».

Io sono a posto, grazie. È il fotografo. Io depongo il softbox. Giuseppe Ivan mi sfila a lato, diretto verso la sua camera da letto, ben attento alla bombetta, ma disinvolto, a suo agio. Va a rivestirsi.

Due

Lunedì.
La strada che dal mio appartamento, nella periferia nord della città, porta al tempio milanese della Gran Loggia d’Italia degli ALAM costeggia il naviglio della Martesana. Cammino con le cuffie nelle orecchie, ho il file con le registrazioni che ho fatto ieri a casa di Giuseppe Ivan nella memoria dello smartphone. Play.

«Per iniziare la narrazione della mia famiglia devo partire da quando attraversammo il mar Rosso. C’è questo Mosè, un ragazzo di ottime speranze allevato alla corte del Faraone, che a un certo punto si trova costretto a fuggire: probabilmente si sarà trombato qualche sorella del sovrano; ma questo è gossip, non è nelle Scritture. Fa le valigie, raduna il suo popolo, attraversa il mare, si ferma ai piedi del monte Sinai, allestisce una sorta di camping. Ha l’urgente necessità di organizzare religiosamente e socialmente questa banda di disperati: ecco le Tavole della Legge. Poco dopo prende una tribù più o meno a caso e dice loro: Voi sarete la casta dei sacerdoti, e vi chiamerete Cohen! Fino a quel tempo gli ebrei avevano solo nome e patronimico, nessun cognome. Poi prende un’altra tribù e dice loro: Voi sarete gli assistentigli addetti alle pulizie! Vi chiamerete Levi. La storia della famiglia Lantos inizia lì: noi, in realtà, siamo Levi. Il cambio di cognome è avvenuto nel Settecento, sotto gli Asburgo, per ordine dell’Imperatore; poi ti racconto.
Salto qualche manciata di secoli e arrivo alla diaspora: noi ebrei perdiamo la Terra Promessa e ci disperdiamo nei quattro angoli d’Europa. Nel Cinquecento ci chiudono nei ghetti. Intanto ci facciamo la fama di essere intelligenti. Niente di genetico, semplicemente avevamo uno strumento di aumento dell’intelligenza: la lettura. Qualsiasi ebreo, di qualsiasi condizione sociale, deve imparare a leggere e scrivere in ebraico, perché la prima cosa che dovrà fare alla sua presentazione in sinagoga sarà leggere un passo delle Scritture. Questo, nel corso delle generazioni, ha contribuito a una certa apertura mentale; che porta sempre con sé qualche vantaggio nell’ambito del commercio e della cultura».

Kippah e taled che Giuseppe Ivan ha comprato durante un viaggio in Isreale.

Il naviglio scorre lento e torbido alla mia destra. Cammino e ogni tanto incrocio lo sguardo concentrato di qualche runner che corre nella direzione opposta alla mia.

«Per iniziare la narrazione della mia famiglia devo partire da quando attraversammo il mar Rosso»

«Il cambio di cognome della nostra famiglia è imputabile a Giuseppe II d’Asburgo-Lorena, imperatore del Sacro Romano Impero – di cui i miei avi erano sudditi – dal 1765 al 1790. Era un buon uomo, anche se un po’ sprovveduto. Pensò: Gli ebrei sono identificabili come tali dai loro cognomi e questo non va bene; anche per il loro bene, devono asburgicizzarsi. Se non hanno cognome, che se ne prendano uno. Per cui inviò per tutte le province dell’Impero dei funzionari dell’anagrafe, che vendevano i cognomi. C’era una sorta di listino prezzi, fondato sulla gerarchia delle pietre preziose: si andava da Diamant, diamante, il cognome più costoso, fino a Liverstein, il calcolo renale, quello più economico; e in mezzo c’erano i vari rubini, oro, argento, ferro, RubinsteinGoldsteinSilversteinEisenstein. Non so per quale ragione i miei avi hanno scelto Lantos, che in ungherese significa sia “suonatore di liuti” che “costruttore di liuti”… Forse volevano risparmiare ulteriormente».

Stop.

Tre

«Da piccolo avevo un’idea ben chiara in testa: non avrei fatto il dentista come mio padre. Mi piaceva molto la chirurgia, però. Passavo ore a tagliare, disinfettare, mettere i punti a una bambola di pezza di mia sorella. Poi al liceo mi appassionai di letteratura e filosofia: così scelsi la facoltà di Lettere, all’università di Genova, la città dove abitavamo».

Giuseppe Ivan Lantos si è rivestito e ora indossa un abito comodo da casa. Sta caricando pizzico per pizzico il tabacco nella pipa. Mi chiede se sto apprezzando la sonata per pianoforte in sottofondo, composta da Felix Mendelssohn, imparentato con i Lantos attraverso il ramo della famiglia di sua madre.

«1967: ho terminato gli esami e mi manca solo la tesi. Vengo a sapere che Ugo Mursia sta cercando dei redattori per la sua casa editrice, a Milano. A novembre parto per sostenere il colloquio con lui, mi chiede la storia del mio strano cognome, mi assume, e io mi trasferisco. Contemporaneamente mi iscrivo al Partito Socialista e inizio a lavorare come ufficio stampa per il senatore Francesco Fossa. Il giorno dopo la strage di piazza Fontana sono a casa con la febbre, mi chiama il figlio del senatore: Papà è stato nominato sottosegretario del governo, vuole che tu vada a lavorare con lui a Roma. Un attimo, calma, ho la febbre, devo riflettere. Sta arrivando un motociclista della prefettura al tuo indirizzo, ti consegnerà un biglietto del treno: è per domani, vagone letto. Dopodomani devi essere a Roma».

Giuseppe Ivan Lantos è in partenza. Sua moglie Giusi è morta da pochi mesi, dopo quarantanove anni di matrimonio. Forse andrà a ritirarsi alle Canarie, un amico gli ha indicato una buona casa con vista sull’oceano. Forse opterà per Londra, dove abita sua figlia e dove suo figlio – che è arbitro internazionale nei tornei di golf – lavora per metà della settimana (l’altra metà a Firenze). È ancora indeciso, mi dice.

Nel frattempo il piano inferiore della sua abitazione ha l’aspetto di un’enorme valigia gonfia e disordinata; si raggiunge con una scala a chiocciola. Su una sedia imbottita c’è una foto di un sorridente Bettino Craxi, che giace sdraiato, arreso, su un lato. Sepolta da qualche parte tra souvenir di viaggio e pile di libri ammonticchiati uno sull’altro c’è una valigia che Giuseppe Ivan ha ereditato dallo zio paterno, zeppa di fotografie di famiglia, pranzi di Natale e di Shavuot, l’ultima festa di compleanno di una zia di seconda grado che poi venne deportata ad Auschwitz – cinquantaquattro sono i membri della famiglia allargata Lantos che sono morti nei campi di concentramento nazisti – documenti di matrimonio, passaporti, diari, lettere censurate dei tempi delle due guerre, una foto del lago Balaton che il padre dello zio di Giuseppe Ivan è riuscito a stampare, con un qualche ingegnoso primo-novecentesco metodo, su una conchiglia raccolta sulle rive dello stesso lago Balaton.

Il piano inferiore della casa.

Arriverà un’azienda di traslochi, impacchetterà tutto – sedie, scrivania, mobili, ritratto di Craxi, valigetta con ricordi, souvenir, libri, tutto – spedirà alle Canarie o a Londra, quando la scelta sarà stata fatta. Avrei voluto guardare dentro quella valigetta. Ma sono anni che è chiusa; e Giuseppe Ivan la riaprirà fra qualche giorno – mi ha detto – prendendosi il suo tempo, forse riordinandone il contenuto. Non ho insistito.

«Due giorni dopo la chiamata del figlio del senatore – era il dicembre del 1970 – ho preso il treno per Roma da solo. Io e Giusi eravamo sposati da un anno e mezzo. Il lavoro era precario, se il governo cade te ne torni a casa, e i governi cadevano spesso. Ma lo stipendio era ottimo. Incentivi ogni sei mesi. Avevo l’autista. Tessere di vari spacci della città. Dopo quindici giorni mi ha raggiunto mia moglie: sono andato alla stazione a prenderla, e abbiamo concepito Isabella quel mattino, la seconda figlia, nell’albergo dove stavo. Al governo c’era Mariano Rumor. Cadde, e al suo posto venne eletto Emilio Colombo: Fossa restò sottosegretario, io continuavo ad avere un lavoro. Cadde anche Colombo. E nel 1972 fu il turno di Andreotti. Con Andreotti non si va, decisero i vertici del PSI. Tutti a casa, Fossa compreso, io compreso, mia moglie e i due figli compresi. Facciamo le valigie, torniamo a Milano. Io passo da un lavoro all’altro nell’editoria, mia moglie inizia a intrufolarsi qua e là, nelle produzioni dei programmi televisivi RAI e poi Fininvest. Un giorno sono a Padova, su incarico del settimanale Gente: devo incontrare una tizia che si è schiantata a bordo di un Range Rover – la macchina una poltiglia di lamiere, lei uscita perfettamente illesa – e scriverne la storia. Faccio l’intervista e poi il fotografo mi riaccompagna in stazione; prima, però, si ferma in edicola, mi dice che vuole vedere se c’è la rivista che dirige sua moglie. Che rivista è?, gli chiedo io. Una rivista di cultura ferroviaria. Quando sono tornato a casa da Giusi, quella sera, le ho detto: Ho un’idea, facciamo il giro del mondo in treno. Aiutami a trovare dei finanziamenti».

I finanziamenti li hanno trovati. Hanno messo insieme una piccola troupe. Sono stati sui treni di Svizzera, Lapponia e Finlandia, Bretagna, Canada, Giamaica, Giordania, Bali e in un mucchio di altri posti. Hanno venduto i documentari a Hobby & Work per una buona cifra.

Macchina da scrivere portatile Underwood 315, con cui Giuseppe Ivan redigeva articoli e comunicati stampa fino alla fine degli anni Ottanta.

Quattro

Un piccolo salto e il naviglio della Martesana si tuffa sotto l’asfalto di via Melchiorre Gioia, e lì sotto continua a scorrere. Play.

«Seconda metà dell’Ottocento. I miei bisnonni fanno le valigie, e dalla regione dei Sudeti, dove abitavano, si trasferiscono a Budapest. In breve tempo al mio bisnonno materno, orologiaio, affidano la cura di tutti gli orologi municipali. Il mio bisnonno paterno apre il primo salone di automobili dell’intera Ungheria.

Poi c’è un salto della famiglia dalle attività commerciali a quelle intellettuali. Mio nonno Emilio si iscrive all’università, prima si laurea in Matematica, poi in Lettere; diventa insegnante a scuola e sposa una ragazza ebrea con cognome asburgicizzato, Heim, che significa casa. Lei era diplomata in pianoforte, di famiglia ricchissima ma in completa rovina per via di un padre stronzo che si era bruciato tutto al gioco, si era fatto la fama di baro, e si era suicidato al confine tra Yugoslavia e Ungheria per sfuggire al processo. Così mia nonna non divenne concertista come sognava, ma insegnante di pianoforte. Mise al mondo due bambini: Andrea e Paolo Ludovico, mio padre».

Modellini di autobus da tutto il mondo: altra passione collezionistica. Insieme a treni, calamite, fari d’avvistamento, bastoni da passeggio.

A questo punto, nella mia registrazione, attacca l’Inno alla Gioia; è la suoneria del cellulare di Giuseppe Ivan Lantos. Risponde. La chiamata è breve. Poi continua a raccontare, discendendo lungo i rami del suo albero genealogico. Io continuo a camminare, guardo a sinistra, guardo a destra, attraverso la strada e proseguo su via Melchiorre Gioia.

«Scoppia la prima guerra mondiale. Crolla l’Impero austroungarico. Il 1919 e il 1920 sono gli anni del biennio rosso. Poi viene nominato reggente d’Ungheria l’ammiraglio Miklós Horthy che, per prima cosa, promulga delle leggi razziali. Non pesantissime. Ma includono il divieto per gli ebrei di frequentare l’università. Mio padre voleva fare il medico: così prende un treno per l’Italia – in quegli anni Mussolini cercava di attrarre il maggior numero di cervelli dall’Europa centrale – insieme a un amico, un certo Cohn. Insomma, un Levi e un Cohen si ritrovano, con i cognomi un po’ mutati, coscia a coscia nello stesso scompartimento di un treno; scendono e si iscrivono a Medicina a Padova, la prima città universitaria in cui s’imbattono lungo il percorso. Poi mio padre si trasferisce a Genova, poi a Milano, poi a Torino, diventa dentista e medico condotto a Gassino Torinese. Infine torna a vivere a Genova. Guadagna bene, si compra la prima automobile, fa le vacanze sulla riviera ligure. Nell’estate del 1938, il regime fascista promulga le leggi razziali».

Stop.

Cinque

È il turno dell’ultimo set fotografico. Giuseppe Ivan Lantos esce dalla camera in calze filo di Scozia, un completo spezzato (pantaloni antracite, giacca nera), camicia bianca, papillon di seta giallo, fazzoletto bianco con trama floreale nel taschino della giacca, giacca su cui è appuntata una spilla in oro giallo che rappresenta un rametto d’acacia (simbolo massonico poco noto), gilet in tartan, anello con incisione di squadra e compasso (simbolo massonico molto noto), occhiali. Prima di mettersi in posa sfila un bastone da passeggio, che stava sull’attenti dentro una sacca da golf che ha tutta l’aria di essere molto costosa; si appoggia a quello. Io mi rimetto al mio posto, softbox in mano, e luce puntata sul soggetto ora sontuosamente vestito.

«La signora che attualmente riposa in quella cassettina» e col bastone da passeggio indica un’urna cineraria di legno sopra un tavolino, su cui giace una rosa rossa «l’ho conosciuta a Genova. Frequentavamo lo stesso circolo culturale americano. Io ero lì per imparare l’inglese».

In un angolo del salotto c’è una telecamera montata su un treppiede: Giuseppe Ivan e la moglie Giusi l’hanno comprata per le riprese del loro giro del mondo in treno. Durante quei viaggi hanno acquistato anche diversi cappelli.

Deglutisce, sorride, non si scompone, prende una boccata di pipa, il fumo esce dalla sua bocca e si porta dietro un sentore gentile di vaniglia. Continua dicendomi che il sabato e la domenica il circolo organizzava delle gite in montagna, sulle piste da sci. Che in primavera si andava a vedere la fioritura dei narcisi: era una cosa che andava di moda. Durante una di queste uscite era seduto sul pullman in una delle prime file: stava mollando una ragazza, litigavano e urlavano. Quella seduta sul sedile davanti, si gira, lo guarda e gli dice: Scusate, se dovete litigare, potreste accomodarvi in fondo? Qui vorremmo cantare. Grazie. Che faccia di culo che ha questa, pensa lui. Va bene, senz’altro, si figuri, ha ragione, risponde. Questo è stato il primo contatto di Giuseppe Ivan con Giusi.

Riesce a sbuffare del fumo verso l’obiettivo? Chiede il fotografo. Lui esegue, una due, tre, quattro, cinque sbuffate di fumo denso, che poi si dissipa nel salotto.

«Qualche mese dopo l’episodio del pullman, sto lavorando alla drammaturgia di uno spettacolo teatrale, un racconto poetico sull’amore, dai trogloditi fino ai giorni nostri. Faccio dei piccoli casting: e a uno di questi si presenta una ragazza. La stessa delle prime file del pullman. Naturalmente le ho dato subito la parte. E sono partito con un corteggiamento spietato, un lavoro ai fianchi durato sei mesi. Poi un giorno lei mi dice: Devo parlarti. E ci diamo appuntamento in un caffè di Genova. Non funziona Giuseppe. E credo non funzionerà. Forse è meglio se la finiamo qui.
Incasso il colpo. Poi viene il mio turno: Bene, tu hai parlato. Fai parlare me, ora. Le dico che avrei voluto sposarla. Diventammo marito e moglie il 15 aprile 1968. Due anni dopo».

“La Massoneria si avvale di un simbolismo muratorio-architettonico, tramite il quale invita i suoi iniziati alla conoscenza di se stessi attraverso una progressione di cerimonie rituali e un luogo di confronto, ove si ricercano i principi morali universali, al fine di operare per la costruzione di un mondo migliore” (dal sito web della Gran Loggia d’Italia degli ALAM).

Potremmo fare uno scatto sulla porta di casa? Poi abbiamo concluso. Sempre il fotografo. Io mi porto dietro il softbox, lo punto, e ricominciano i flash.

La porta è blindata. Sull’altro lato, quello che dà sul pianerottolo, c’è un grosso stemma con squadra e compasso che Giuseppe Ivan si è comprato su Amazon. Poco distante, fissata allo stipite con un chiodo, c’è la mezuzah. Un oggetto rituale che gli ebrei affiggono alle loro porte. Ricorda il segno che, durante l’ultima notte in Egitto, Dio intimò a Mosè di tracciare sugli usci della gente del suo popolo. Quella notte sarebbe giunto l’angelo della morte a prendere con sé tutti i primogeniti della terra d’Egitto. Avrebbe risparmiato solo le case segnate col sangue d’agnello, quelle dei figli d’Israele.

«Mia madre e mio padre, hanno vissuto tutta la loro vita dopo la guerra, in Italia, assediati dal complesso del profugo. Come se qualcuno sarebbe potuto sbucare all’improvviso, bussare alla loro porta, prendersi tutto quello che avevano costruito, e distruggerlo, di nuovo. A me non piace nascondermi. Ti basta dare un’occhiata alla mia porta per capire che qui vive un ebreo e massone».

«A me non piace nascondermi. Ti basta dare un’occhiata alla mia porta per capire che qui vive un ebreo e massone.»

Giuseppe Ivan Lantos pronuncia queste ultime parole in tono bonario. E senza rabbia o risentimento mi dice che, una settimana fa, qualcuno ha tracciato una stella di David sul cofano della sua auto con delle chiavi. Ha sporto denuncia. Secondo lui è stato il gesto di qualche ragazzotto idiota, niente più, niente di cui avere paura. Così mi ha detto, ci ha riso sopra. È passato ad altro. Io con lui – un po’ titubante – ho cambiato argomento, sono tornato sulla massoneria, gli ho chiesto come avvengono le riunioni, concretamente. «Niente di speciale». Ha risposto. «L’incontro base avviene in un locale apposito, detto Tempio, disegnato, all’incirca, sul modello del tempio di Salomone. Ci sono due ordini di sedie. Una cattedra sopraelevata, a cui si accede tramite tre gradini, su cui siede il Maestro Venerabile. Poi ci sono due aiutanti, i sorveglianti, seduti di fronte. Un segretario che redige il verbale. E un oratore che fa una sintesi finale dei discorsi pronunciati».

Giuseppe Ivan ha iniziato a giocare a golf, su spinta del figlio primogenito, oggi arbitro del circuito internazionale.

E di cosa si parla, ho chiesto: «Dipende. C’è un ordine del giorno deciso dal Maestro Venerabile di volta in volta. Non è un dibattito o una discussione. Si interviene uno alla volta e non si ribatte al discorso precedente. Quando tutto è finito si esce fuori, si va al ristorante – abbiamo una convenzione con una trattoria in zona – e si continua a discutere, molto più liberamente».

E come arrivano le convocazioni alle riunioni? «Un tempo via posta, raccomandata con ricevuta di ritorno. Da qualche anno via mail. Nella convocazione c’è l’ordine del giorno».
E l’età media, più o meno? «Ci sono molti giovani».
E si può assistere? «Se non si è iniziati no; in nessun caso. Ma facciamo molti eventi aperti al pubblico. La massoneria, da dentro, è molto più normale di come appare da fuori».

Grazie. Io qui ho finito. Aiuto il fotografo a smontare il softbox e inserirlo nella sua valigetta. Salutiamo. Ringraziamo. Chiudiamo la porta.

Sei

Svolta a destra su via del Progresso!, mi intima la voce femminile del navigatore.

«1938. A casa di mio padre si presenta un ufficiale della milizia, accompagnato da altri due uomini. Signor Paolo Ludovico Lantos, lei ha 48 ore per lasciare il paese. Può portarsi solo gli effetti personali. L’unica, a quel punto, era tornare in Ungheria. Il viaggio durò un paio di mesi: a mio padre venne un terribile mal di denti, che lui ritenne di curarsi con abbondanti sciacqui di cognac. Arrivò in piazza Oktogon, a Budapest. Gli mancava solo l’ultima tappa del percorso, in tram. Era alticcio, si mise a cantare arie di opere liriche italiane. Il caso volle che di lì, in quel momento, passò una ragazza, che doveva prendere lo stesso tram. La ragazza conosceva già mio padre: le loro famiglie erano amiche. Ma era la prima volta che lo sentiva cantare. Lì in piazza Oktogon nacque il lungo e travagliato amore tra mio padre e mia madre».

“Quando mio padre ha capito che con Giusi facevo sul serio, mi ha detto: La prima cosa che devi dire quando ti presenti ai suoi genitori è che sei ebreo. L’ho fatto davanti a una pizza. Il padre di Giusi, mi ha guardato per un attimo, e mi ha risposto: E chi se ne fotte?”.

Sei arrivato! La tua destinazione si trova sulla sinistra!

«A Budapest mio padre ritrova anche Cohn, l’amico con cui era partito per l’Italia, anche lui costretto ad andarsene. C’era già stata l’annessione nazista dell’Austria. Nel 1939 l’invasione della Cecoslovacchia. In Ungheria l’aria si faceva sempre più irrespirabile. Il posto non era più sicuro. Bisognava partire. Una sera a cena, Cohn dice a mio padre che ci sono solo due posti sicuri, in quel nuovo mondo, per gli ebrei. Uno è Shanghai. L’altro è Tangeri. Mio padre gli domanda: E tu dove vai? Cohn: A me piacciono i cinesi, vado a Shanghai. Mio padre: E come si arriva a Shanghai? Cohn: Si va in un porto, si prende un battello; un mese e mezzo o due di navigazione e si arriva. Mio padre soffriva di mal di mare anche solo a guardare le barche al cinema. Per Tangeri, invece? Cohn: Passi dall’Austria, se ti fanno passare i tedeschi. Svizzera. Francia. Spagna. E arrivi fino a Lisbona: tutto in treno. Lì puoi prendere un aereo. E andò così. Mio padre salutò mia madre, la sua fidanzata, le disse che lei era libera di decidere quello che voleva fare. Partì. Venne fermato al confine tra Austria e Svizzera: aveva due valigie, in una i libri, nell’altra gli strumenti chirurgici. I tedeschi gli sequestrarono qualcosa ma lo lasciarono passare. A Lisbona – per via di quel fermo – verrà arrestato, in attesa di accertamenti. Una settimana in carcere. Poi lo liberarono. Aereo per Tangeri, dove trovò un posto come assistente chirurgo all’ospedale francese della Charité. Nel febbraio del 1940 lo raggiunse mia madre. Ad aprile si sposarono».

«Dai racconti fatti molto sottovoce nella mia famiglia, ho scoperto che mia madre rimase incinta, ma decise di abortire. Mio padre, però, pian piano la convinse che un figlio ci voleva. Così il 18 novembre 1942 nacqui io»

Sono arrivato al Tempio della Gran Loggia d’Italia, sede di Milano. Da fuori è un parallelepipedo alto quattro o cinque metri, con le sbarre alle finestre, completamente anonimo. Potrebbe essere una piccola ditta familiare che produce qualcosa di non troppo ingombrante.

Mi avvicino. C’è un citofono senza alcun nominativo. Una targa che recita “Centro sociologico italiano”, Giuseppe Ivan mi aveva anticipato che quello è il nome legale della parte di struttura che si occupa dell’amministrazione. «Un po’ serve anche come copertura, mica puoi scrivere “Tempio Massonico della Gran Loggia d’Italia degli ALAM. Anche se c’è poco da coprire: i nominativi di tutti gli affiliati sono depositati regolarmente in questura». Un’altra targa avverte che l’area è sottoposta a video-sorveglianza. Ci sono due telecamere puntate sull’ingresso. Tutto qui.

Il muro di fronte è scalcinato, qualcuno con una bomboletta nera ha scritto: “Curva Nord, Padroni di Milano”; gli interisti. A lato hanno ribattuto i milanisti con la bomboletta rossa: “Curva Sud”. E sopra quella scritta qualcuno ha tracciato una stella di David, in nero, e sotto: “Ebrei”. Nel gergo ultras i milanisti sono “ebrei” perché hanno una curva di destra troppo poco estrema, secondo le tifoserie rivali.

«L’eliminazione degli ebrei ungheresi fu una cosa rapida, perché nell’inverno del 1944 a Budapest arrivò Eichmann. I primi morirono nel Danubio gelato. Venivano disposti in fila sugli argini, legati l’uno all’altra con il fil di ferro. I soldati sparavano alla testa dei primi tre, che si trascinavano nel fiume gli altri dieci. Poi furono organizzati i treni. I miei nonni riuscirono a mettersi in salvo in alcune case protette di Budapest gestite da uno svedese. A mia madre e mio padre le notizie da casa arrivavano a singhiozzo, tramite qualche lettera che riusciva ad attraversare l’Europa. Dai racconti fatti molto sottovoce nella mia famiglia, ho scoperto che mia madre rimase incinta, ma decise di abortire. Mio padre, però, pian piano la convinse che un figlio ci voleva. Così il 18 novembre 1942 nacqui io.
Finì la guerra. Nel 1947 nacque mia sorella. Nel 1948 tornammo a Genova. La città era distrutta. Al posto della nostra casa c’era un cumulo di macerie. Siamo ripartiti da lì, e ci siamo ricostruiti una vita».

Stop. Mi tolgo le cuffie. Suono al citofono senza nominativo. Aspetto. Non risponde nessuno.

Sette

“Ho fatto delle cose strane nella vita, mi sono divertito, non ho mai creduto nei ruoli cristallizzati. Volete che posi nudo? Va bene”.

Un qualche cosa l’uomo avrà
In tutta la pena sua di sotto il sole?
Un vaevieni di generazioni
E la terra che sta nel tempo
Sole si leva
Sole tramonta
Corre laggiù
Di là riappare
Andato a Sud gira a Nord
Il vento nel suo andare
Dopo giri su giri
Il vento ricomincia il suo girare
Si versano nel mare tutti i fiumi
Senza riempire il mare.

[Qohélet, I, 3-7]

Tra sacro e Parmigiano

L’odore è denso e acre, e punge la gola mentre Rakesh afferra il forcone con entrambe le mani infilzando il primo ballone di fieno del pomeriggio, facendolo franare. L’aria della stalla si carica di suoni. Il muggito di una vacca si specchia nei tanti echi gutturali delle altre, musi bianchi e neri si affacciano alle transenne della recinzione. Rakesh avvicina il fieno mettendolo alla portata della loro bocca. Subito dopo distribuisce il mangime, ma non a tutti gli animali. «Vedi le vacche con il segno rosso sulla testa?» – indica con la mano – «sono gravide e non danno latte. A loro va solo il fieno». Terminata quella prima mansione, nei pochi minuti liberi che precedono la mungitura, estrae un piccolo foglietto di carta su cui sono scritte delle brevi frasi e con una penna aggiunge qualche parola.

Salempur Masandan è un villaggio di poco più di mille abitanti in Punjab, nel distretto di Jalandhar. Rakesh Roshan, 42 anni, è nato lì, ma da più di un decennio abita a Guastalla, in quel tratto di pianura padana in cui ha ravvisato fin da subito qualcosa di familiare. «Queste terre sono simili al Punjab: fertili, ricche di fiumi e canali, pianeggianti». Seguendo la provinciale che attraversa la Bassa reggiana, si percorre uno spazio indefinito, un labirinto senza pareti dove le strade sezionano campi coltivati, congiungono capannoni l’uno uguale all’altro, case coloniche e vecchie cascine isolate. In questa distesa prima si perdono gli occhi, poi i passi. Il Po, nascosto dietro gli argini, lo si respira anche senza vederlo. Il fiume taglia il paesaggio addomesticato osservandolo di sottecchi come un padre buono, anche se a volte si irrita e lo invade come un padre ubriaco. Lungo la strada i campanili delle chiese che grattano il cielo annunciano paesi più o meno grandi. Uno di questi è Guastalla, dove Rakesh mi attende al secondo piano di una casa grigia, anticipata da un cortile dove piccole biciclette rosa e un’altalena gialla indicano la presenza di bambini. Con lui ci sono la moglie Sunita e Chanchal, 4 anni, la più piccola delle tre figlie. Le altre, Gloria di 8 anni e Rupali di 10, sono a scuola. Un poco discosta, sorride la cognata Reena.

«C’è voluto coraggio per arrivare fino a qui. Avevo solo 18 anni e sono sbarcato a Crotone nel 1996, da clandestino». Dice questo e mi fa accomodare su uno dei due divani del minuto salotto, dove l’unica concessione visiva all’Occidente è un alberello di Natale bianco. Seduto e un po’ chino, con una minima tensione che culmina nella mano destra stretta a pugno nella sinistra, Rakesh mi introduce nel racconto crudo dei molti uomini che arrivano in Italia come arrivassero nella terra promessa. Le sue mani, e le loro, sono un ritratto personale, dove la storia di tanti diventa la storia di ciascuno dei tanti. «Fame, freddo, ma anche le olive. In India non c’erano, le ho conosciute in quei giorni difficili e ora ne sono ghiotto». Allevia così un resoconto preferibilmente non detto, malvolentieri spiegato: la partenza solitaria da casa fino a Nuova Delhi, l’aereo per la Turchia e un’imbarcazione di fortuna che lo conduce in Italia. Dopo qualche anno di lavoro a Darfo Boario in una fabbrica di gomma, Rakesh – che con la moglie ha oggi la cittadinanza italiana – giunge a Guastalla nel 2006 seguendo le orme di uno zio.

Il Padànjab, terra di vecchi miti e nuovi riti

Quando il tagliagrana, coltello dalle sembianze di un cuore, affonda nella forma di Parmigiano Reggiano per estrarre la scaglia di formaggio, siamo pronti a misurare con il gusto l’esito di un procedimento dai tempi lunghi, cominciato molti mesi prima. È l’epilogo di una filiera e di un’eccellenza italiana la cui esistenza è ormai in larga parte dipendente dalla presenza di uomini giunti nella nostra pianura dalla penisola indiana, quasi tutti dal Punjab. Rakesh è uno dei 3.500 lavoratori indiani, stando ai recenti dati della Coldiretti Emilia Romagna, che operano nella filiera del Parmigiano Reggiano, uomini impiegati per la maggior parte nelle stalle, con mansioni di mungitura. Senza di loro – più della metà di religione Sikh – quella che è stata definita da Le Monde “una divinità da conservare come l’oro e da salvare quale patrimonio inestimabile e simbolo del made in Italy in tutto il mondo” subirebbe rilevanti problemi di produzione.

La presenza indiana nelle province di Reggio Emilia, Modena e Parma risale agli inizi degli anni Novanta. Chi arriva qui oggi, però, non viaggia più al buio, trova una comunità che lo fa sentire a casa. Esiste una rete sociale ampia che non riguarda solo l’industria casearia e che sta modificando questi stessi luoghi. Ai miti e ai riti centenari sedimentati sulle rive del fiume, di recente se ne sono aggiunti altri. Nel nuovo Padànjab sorgono templi Sikh come il Gurdwara di Novellara, o altri più discreti come quello della Ravidassiya a Correggio, per strada si ascoltano pronunciare i nomi dei Guru, fuori dai discount le utilitarie attendono i loro proprietari come in un parcheggio di Jalandhar o Varanasi e il bagagliaio aperto è riempito con prodotti a basso costo.

Accostamenti una volta improbabili sono oggi la quotidianità: il caffè in uno dei tanti bar della Bassa è regolarmente servito da cinesi, nel breve sorso di una tazzina si contano più di cinque lingue differenti che usano l’italiano come esperanto, le passeggiate del pittore Antonio Ligabue tra i pioppeti, fantasticando sui leoni, sono una memoria sbiadita dei vecchi di paese, il presente cammina con i piedi nudi del ragazzo indiano che mi introduce alla visita del tempio di Novellara, a cui giungo in macchina sulle note di una radio locale che trasmette “Dio è morto” di Augusto Daolio e dei suoi Nomadi.

Non è una mattina qualsiasi

Sono a Guastalla. A 15 chilometri da qui, Giovannino Guareschi ha ambientato le storie di Peppone e Don Camillo, ma se esistesse oggi un Riccardo Bacchelli degli Anni Duemila il racconto della vita sul Po non potrebbe evitare le processioni di turbanti dai molti colori, gli uomini dallo sguardo severo e dalla barba lunga, i gesti che giungono dove la lingua fatica ad arrivare, la forma tonda del chapati, il pane indiano che nelle cucine è pressato col mattarello, scaldato e posto nelle mani dei visitatori, come fa Reena con me, in segno di benvenuto, quando sono accolto in casa.

«Queste terre sono simili al Punjab: fertili, ricche di fiumi e canali, pianeggianti»

«Questo è un giorno speciale». La televisione è accesa su Kanshi Tv. «Io non sono Sikh» afferma Rakesh guardandomi negli occhi. Non ha il turbante, ha il volto ben rasato, non ha la barba lunga dei fedeli del sikhismo e neppure il coltello con sé. Se in tasca tiene il pettine, lo fa perché gli piace essere in ordine, non perché prescritto dalla sua religione. A guardarlo per la prima volta lo si direbbe occidentalizzato, ma non si può fuggire dal notare che serba nell’intimo una fede profonda. Lui e la sua famiglia sono seguaci della Ravidassiya, una tradizione distaccatasi dal sikhismo, che si ispira agli insegnamenti del Guru Ravidass, un santo indiano la cui data di nascita è incerta, ma che viene per lo più ritenuta nella seconda metà del quattordicesimo secolo e celebrata proprio oggi.

«Il nostro Guru è nato a Kanshi» dice mentre maneggia lo smartphone. È in collegamento via Whatsapp con un’amica che si trova in quel villaggio, nella provincia dell’Uttar Pradesh. Mentre siamo seduti nel salottino a parlare, a quella latitudine migliaia di uomini festeggiano in processione e si dedicano alla preghiera. Mi mostra le immagini, che si muovono a intermittenza. «Purtroppo il segnale qui non prende bene» si rammarica. Sulla scala esterna che conduce alla porta d’ingresso della casa di Rakesh è posizionata un’antenna satellitare. In Italia si stimano più di 30.000 fedeli della Ravidassiya, mi domando quanti ponti via etere partano oggi dal Padànjab per arrivare a Kanshi. Parlando di religione Rakesh si scopre spigliato. «Seguimi» dice alzandosi dal divano. Entriamo in cucina, giriamo lungo uno stretto corridoio ai cui lati si affaccia la stanzetta delle figlie e ci troviamo nella camera da letto. Indica la parete: «Guarda». Vedo farfalle e volti di uomini, di santi, di guru, di persone che mi dice essere degli esempi da seguire. «Nella vita, avere una guida è importante». L’ansia che il primo incontro porta con sé si è sciolta, Rakesh mi passa nuovamente il telefono, questa volta per parlare con la cugina Davinder: «Conosce l’italiano meglio di me». La religione è argomento sul quale i fraintendimenti non sono ammessi. Vengo così a sapere che il Guru Ravidass, essendo stato un conciatore di pellame, era inserito tra gli intoccabili – dalit – sia dagli induisti sia da alcune fazioni dei Sikh. «Per noi le caste non sono importanti – chiarisce Davinder – quello che conta è il comportamento che le singole persone tengono nella loro vita e devono essere giudicate per quello. E poi, rispetto ai Sikh, diamo meno significato agli aspetti formali».

Benché la comunità Ravidasi non ostenti segni esteriori, i loro templi assomigliano a quelli Sikh, così come simili sono i riti e le cerimonie. È presente anche il Langar, la cucina comunitaria dove si offre cibo ai visitatori, nato dall’esigenza pratica che deriva dal nutrire coloro che pregano nel tempio per tutto il giorno, ma che è diventato un simbolo di uguaglianza fra tutti i partecipanti. Diverso è invece il loro Libro sacro, Amrit Bani, il quale contiene gli inni del Guru Ravidass, presenti tra l’altro anche nel Libro dei Sikh, il Guru Granth Sahib.

Rakesh è uno dei 3.500 lavoratori indiani, stando ai recenti dati della Coldiretti Emilia Romagna, che operano nella filiera del Parmigiano Reggiano

Le differenze si sono accentuate recentemente. È il 24 maggio 2009 quando in Pelzgasse, una via tranquilla di Vienna, accade qualcosa che dimostra come quella dei punjabi sia una diaspora dalla geografia allargata, ma dagli spazi stretti. I movimenti generati da una scossa lontana sono avvertiti come fossero sull’uscio di casa: da Kanshi a Londra, dal Canada a Guastalla. Al numero 17 della via, sul lato sinistro di un portone marrone, è raffigurato il simbolo Har (onnipotente) della tradizione Ravidasi. Superato il portone si entra nel tempio della comunità. Durante il sermone del guru Sant Ramanand Ji, 56 anni, sei uomini con turbanti gialli e blu e la barba lunga, stando ai testimoni, fanno irruzione con i coltelli e con un’arma da fuoco, ferendo mortalmente il guru davanti a circa 200 persone. La disputa religiosa tra i Sikh e i Ravidasi naufraga nel sangue. «Da quel giorno le differenze sono aumentate, ma viviamo in pace. Io visito spesso il tempio Sikh a Novellara» dice Rakesh. Mi guardo attorno, della Ravidassiya trovo accenni frequenti nella stanza, metto a fuoco insoliti manifesti colorati, immagini di alcuni uomini con il turbante, di altri senza, quella del Guru a gambe incrociate e con la mano destra alzata in segno di saluto benedicente.

La famiglia nelle fotografie

«Mi hanno conquistato gli occhi neri, belli, sorridenti». Rakesh è rivolto verso la parete, dove una fotografia sopra il divano lo ritrae con Sunita nel giorno delle nozze, nel 2005, con i vestiti della festa «che dura quasi una settimana». Il suo è stato un colpo di fulmine indiretto, attraverso un’altra fotografia, quella consegnata dalla famiglia di lei a quella di lui. È su carta fotografica che Rakesh per la prima volta ha visto sua moglie. «Mi ha conquistato con il suo sguardo, ho accettato di frequentarla, così ci siamo conosciuti e ci siamo piaciuti». Oggi la strada che conduce al matrimonio in molti casi non è più quella, soprattutto per le giovani generazioni che si trovano all’estero, ma la tradizione permane. Sunita raggiunge il marito, seduto ora sul divano, con la piccola Chanchal. Rakesh si inventa traduttore perché la moglie non parla italiano. «È sempre in casa, a volte porta le bambine al parco, ma non ha occasione di imparare la lingua». Nessuno riesce a spiegarmi sino a che punto l’occasione sia cercata, sino a che punto sia evitata. La comunicazione di Sunita è affidata a gesti cortesi e a occhi che, effettivamente, sorridono anche fuori da un’immagine.

Sopra la porta che conduce alla cucina, da dove verso l’ora di pranzo si diffonde un intenso profumo di curcuma, c’è la fotografia del padre di Rakesh. Un volto austero e dignitoso che veglia la casa. Il figlio lo indica come fosse una strada: «È lì per ricordarmi quello che ha lasciato in eredità: lealtà, rispetto, onestà. Sono gli stessi valori che voglio lasciare io alle mie figlie». È per loro che Rakesh non se ne andrà dall’Italia per tornare in India. «Qui c’è più sicurezza». Osserva le foto delle bambine alla parete. Chanchal, che sta scalando davanti a noi la sedia del tavolo con un gioco in mano, è la più piccola, benché rispetto alla fotografia sia già cresciuta. Il papà la guarda: «Mi piacerebbe avessero una vita migliore della mia, che studiassero per diventare medico o avvocato».

Il lavoro nella stalla

La Micra blu di Rakesh attraversa le tante scatole bianche che, prese tutte assieme, compongono la teoria di capannoni allineati attorno a San Giacomo, paese appena fuori Guastalla. Dove il torrente Crostolo sta per finire il suo viaggio nel Po, c’è la stalla della famiglia Frigeri, una delle tante della Bassa, il cui latte dà vita al Parmigiano Reggiano. In questa stalla, attiva da più di 50 anni, Rakesh lavora dal 2006 insieme ai fratelli Giuseppe e Stefano Frigeri, che portano avanti l’impresa cominciata a suo tempo dal padre Giovanni. Da qui escono quotidianamente 13 quintali di latte, che diventano 27 forme di parmigiano al giorno, circa 9.800 all’anno, distribuite a due fornitori, uno di Guastalla, l’altro di Suzzara, nel Mantovano. Perché questo avvenga, però, è necessario che le 120 frisone siano curate, nutrite, munte. «Di mungitori italiani non se ne trovano. L’ultimo che abbiamo avuto, ormai un po’ di tempo fa, se n’è andato dopo un anno. Ti assicuro che non è poco». Le parole di Giuseppe Frigeri spiegano perché i punjabi abbiano trovato sulle rive del Po una piccola India, capace di assicurare posti di lavoro che l’altra India, quella grande, non poteva. È questa comunità di indiani, più variegata per credi e abitudini di quanto appaia, a garantire al Parmigiano di restare un’eccellenza italiana nel mondo.

Per circa 1.400 euro al mese Rakesh si sveglia quando la notte inghiotte ancora la pianura, dalle 5 alle 8 comincia il primo dei due turni giornalieri, il secondo è dalle 16 alle 19. In questo lavoro che non conosce pause né di sabato né di domenica, lo seguo nel turno serale. «Per chi arriva dall’India non c’è nulla di strano a mungere le vacche, già da piccoli questa è per noi la quotidianità. Ci siamo nati. Quasi ogni famiglia possiede una vacca e qualche altro animale per uso personale. Gli uomini vanno a lavorare nei campi, le donne si occupano delle bestie e i bambini stanno attorno e, mentre giocano, imparano».

Poi entra nel recinto delle vacche e comincia a indirizzarle verso i 10 gruppi di mungitura, disposti su due file parallele. Il lavoro è preciso, metodico, svolto quasi a memoria. Rakesh pulisce il capezzolo, lo libera strizzandolo dai primi fiotti di latte, lo disinfetta e attacca il gruppo. Cinque minuti dopo lo stacca, disinfetta nuovamente l’animale e ne introduce uno nuovo. Sessantuno vacche dopo, quando ha finito e si sta rivestendo, lo vedo riporre nella tasca dei pantaloni un foglietto sul quale ha vergato con la biro qualcosa.

Spiritualità a ritmo pop

Prima dei saluti, Rakesh mi consegna un DVD con tracce dai titoli per me incomprensibili. Me ne vado con la promessa di guardarlo. Inserito nel mio Mac, mi soffermo sulla traccia numero 7: un cantante che si chiama Ricky Mann, occhiali scuri e giubbetto di jeans, tiene in mano un medaglione la cui forma ricorda il simbolo Har, intonando una canzone e citando più volte il Guru. L’uomo è in un parco insieme ad altre quattro persone, come sfondo un’auto bianca, mentre la musica tradizionale indiana si miscela con basi elettroniche e con la stessa voce di Ricky Mann. Quando la canzone sta per concludersi, compare Rakesh che gli stringe la mano ed entrambi indicano verso di me che sto guardando il video.

È questa comunità di indiani, più variegata per credi e abitudini di quanto appaia, a garantire al Parmigiano di restare un’eccellenza italiana nel mondo.

«Mi chiamo Mehton». Pochi giorni dopo, nel salottino di casa a Guastalla, resto sorpreso da questa affermazione, poi capisco che Rakesh ha appena pronunciato il suo nome d’arte. Quando scrive, Rakesh Roshan diventa Rakesh Mehton e con quel cognome lo trovo sui manifesti colorati alla parete, che ora acquistano ai miei occhi un nuovo significato. Quest’ultimo diventa più chiaro quando prende in mano un quadernone verde, sulle cui pagine sono scritti in bella calligrafia lunghi testi in devanagari, la più importante tra le scritture indiane. Sono colpito dall’eleganza grafica che si libera dalle stesse mani callose che mungono le vacche. Le lettere sono appese sotto il rigo, sembrano stese su una corda per formare nell’aria uno skyline del pensiero, che però è a testa in giù, le cui guglie pescano nel profondo. Lo dico a Rakesh cercando di farmi capire, lui annuisce. «Scrivere è sempre stata la mia passione, le mie canzoni parlano di religione, ma anche di politica. Quando scrivo, la direzione che seguo è quella della fede». Si sposta sulla scala esterna di casa per intercettare più luce, estrae i foglietti volanti già visti nella stalla e ricopia alcune parole sul quadernone. «Mentre lavoro in stalla mi vengono in mente dei versi – spiega senza alzare lo sguardo dalle carte – li fermo subito negli appunti prima di perderli. Ho paura che le idee non tornino più». Quelle righe furtive scritte e cancellate in velocità negli interstizi del lavoro sono un mix di preghiera e di ritmo pop. In India, i suoi testi sono messi in musica da diversi cantanti. Con uno di questi, Ricky Mann, il rapporto è speciale. «Siamo diventati amici e siamo sempre in contatto. Hai visto? Sono anche in un suo video». Faccio di sì con la testa e gli chiedo della traccia numero 7. «Il titolo della canzone è Taraki, significa coraggio. La parola che preferisco». Mi torna in mente la prima chiacchierata con lui e quella frase: «C’è voluto coraggio per arrivare fino a qui». Aggiunge: «È una canzone che parla di come andare oltre alle avversità della vita». Il testo, dice Rakesh, è un manifesto di ciò che vuol dire seguire la Ravidassiya: «Non possiamo agire bene in questo mondo se non conosciamo prima il nostro cuore e se non abbiamo rispetto per noi stessi, per gli altri e le diverse religioni».

Le sue canzoni e il suo nome viaggiano con il passaparola e Whatsapp, usato anche per inviare ai destinatari quello che scrive. Sono gli strumenti con cui diffonde scrittura e fede alla sua rete di contatti. «A noi credenti nella Ravidassiya, queste canzoni sono utili per espandere la nostra voce, per spiegare agli altri quello che dice il Libro, per affermare il nostro ruolo nella società». Sono testi spirituali che viaggiano su musiche che non sono quelle d’amore in stile di Bollywood. Forse anche per quello verrà il tempo. «Chissà, magari un giorno».

Latte di preghiera e gioco

Quando lo vedo per l’ultima volta, Rakesh è nella stalla. I gruppi di mungitura stanno per accogliere gli ultimi animali. Lame di luce filtrano dai vetri rotti e percorrono lo spettro dei colori dall’arancio al rosa. In questo angolo di Padànjab il silenzio costruisce la sera sopra i campi vicini, quando mi viene in mente un’ultima cosa da chiedere a Rakesh. Lo raggiungo e, cercando di farmi capire, gli chiedo quante tonalità di bianco ci sono per lui nella parola latte, consapevole che comprenderà solo in parte la domanda, ma comunque desideroso di conoscere la sua risposta. Rakesh fa un respiro trattenuto e poi: «Il latte è purezza. Produrlo e servirsene aiuta a mettersi in contatto con la natura». Si arresta qualche secondo nel parlare. «Ed è anche un gioco».

Gioco?

«Quando mi sono sposato, gli amici hanno gettato l’anello di Sunita in una vaschetta colma di latte. È uno scherzo che si usa sempre nelle nostre cerimonie. La sposa, alla cieca, immerge le mani fino a quando non lo ripesca».

Un regno animale

Ho sentito per la prima volta il nome di Vali Myers il 16 gennaio scorso, grazie a un’intervista che feci per linus all’artista Matteo Guarnaccia. Matteo mi raccontò del suo viaggio in autostop ad Amsterdam, nel 1970. All’epoca aveva appena 15 anni. Amsterdam gli piacque così tanto che finì per restarci parecchio tempo. La città pullulava di giovanissimi venuti da tutta Europa.

Una volta spedite le domande avevo immaginato Matteo di fronte al computer, con i boccoli bianchi, impegnato a ricordare vicende accadute 46 anni prima, che tuttavia erano ancora perfettamente conservate nella sua memoria. Cosa che meriterebbe una digressione e quella lettura di Sant’Agostino che mi riprometto di fare da tempo.

Matteo mi disse che ad Amsterdam, nel 1970, lui e i suoi amici vestivano con gli abiti trovati nelle sartorie teatrali. Pedalavano su delle belle biciclette bianche, ereditate dai Provos e da Luud Schimmelpennink, autore di un piano per la mobilità urbana. Andavano ai concerti dei Pink Floyd oppure a vedere le mostre della strega Vali Myers, che disegnava col sangue mestruale. Chi era Vali Myers?

Diedi un’occhiata alla pagina in inglese su Wikipedia, poi digitai di nuovo Vali Myers, stavolta su Google immagini. A quel punto vidi le foto di una donna dal volto tatuato e poi una serie di ritratti in bianco e nero della stessa donna, negli anni ’50 a Parigi, immersa in una classica atmosfera esistenzialista. Non era ancora tatuata. In una di queste foto in bianco e nero Vali, che all’epoca aveva più o meno 20 anni, si guarda allo specchio fino a poggiare sul vetro un bacio morbidissimo, che avrà reso quello specchio parigino, immagino, felice per il resto della vita. O forse turbato, intossicato. Vali, infatti, in quella foto non ha un’aria felice.

La vita di un gruppo sbandati nel quartiere latino, a Parigi, all’inizio degli anni ’50, è il soggetto di Love on the left bank, libro fotografico di Ed Van Der Elsken. In queste foto Vali balla in slip e reggiseno, fuma o siede in un caffè insieme a qualche amico, proprio come in quel romanzo di Patrick Modiano: Nel caffè della gioventù perduta. Ripeto, non sembra molto felice. A Parigi era arrivata in nave dall’Australia, dov’era nata nel 1930 e dove per un periodo era stata la prima ballerina del Melbourne Modern Ballet. In altre foto, che furono scattate negli anni ‘60, Vali Myers appare molto cambiata: posa con la guancia accanto a un barbagianni e mostra dei tatuaggi sugli zigomi e intorno alla bocca.
Sul suo conto scoprii poi altre cose. Vali aveva ispirato un personaggio di Orpheus Descending, opera teatrale di Tennesse Williams. Era apparsa sulla copertina dell’edizione inglese di un romanzo di Francoise Sagan: Those without shadows. Il tatuaggio di una folgore che compare sul ginocchio di Patti Smith, è opera di Vali Myers. Così come un tatuaggio sulla mano di Dee Dee Ramone. Vali Myers, inoltre, aveva conosciuto Marianne Faithfull e Mick Jagger. Joni Mitchell le aveva dedicato una canzone. Negli anni ’50 a Parigi aveva conosciuto Jean Paul Sartre, Jean Cocteau e Jean Genet. Aveva vissuto a lungo nella camera 631 del Chelsea Hotel, a New York.

Altre informazioni, immagini, aneddoti, si accumulavano confusamente, come succede lavorando su Google. Poi vidi il pezzo di un documentario girato da Ed Van Del Elsken, il fotografo che l’aveva ritratta negli anni ’50. Si erano rivisti diversi anni dopo, nel 1972, e stavolta Ed l’aveva filmata in Italia, a Positano. Vali si era stabilita lì da tempo, nel folto di un bosco, in fondo a una specie di canyon, dove campava in compagnia di decine di animali e di un ragazzo molto più giovane di lei: Gianni Menichetti. Nel filmato la coppia è circondata da un corteo di animali, compresi un asino e una scrofa. Gianni sorride, ma è di poche parole. Visto in mezzo alla vegetazione, sembra un Dioniso in carne e ossa. Ciò che è dentro di lui, in quel momento della vita, dev’essere così potente da non poter essere verbalizzato. Per questo, probabilmente, è molto laconico. Vali e Gianni mimano un atto sessuale e si baciano di fronte alla cinepresa. Muovono la lingua evocando in me l’intelligenza e l’abilità di un serpente, dentro un’evocazione più grande del giardino dell’eden. Provo una specie d’invidia. Ma non è tanto invidia, quanto lo stupore provato da chi vive in un’epoca in cui il corpo non è più così vitale.

Vali Myers è morta nel 2003, a Melbourne, ma Gianni vive ancora a Positano, in quel canyon. Non se n’è mai andato. Quando è stata clonata una pecora nel 1996, è probabile che lui fosse lì, con le sue bestie, e che non si sia accorto di nulla. Così come, quando Al Qaeda ha messo una serie di bombe a Madrid, lui era lì. Quando un terremoto ha distrutto l’Irpinia, nel novembre 1980, lui era lì. “Quel giorno c’era una specie di scirocco, faceva caldissimo…”. Sono andato a conoscerlo nel suo eremo, l’ultimo sabato di maggio, passando il giorno prima per Napoli, dove su una bancarella in piazza Dante, per puro caso, ho trovato una vecchissima pubblicazione, forse dei primi anni ’60: Paris la nuit. Misteri, piaceri, inganni. In questa rivista si parla della vita notturna a Parigi – “la città del bacio” – e delle ragazze che arrivano da tutto il mondo per ballare, vestite di piume di struzzo. Dodo D’Amburgo, Bangura Ouma, Régine, Nelida. Su una di loro, durante uno strip, avevano proiettato una texture fatta di piccole svastiche. Ma Vali era diversa.

Chi era Vali Myers?

Non le interessava fare carriera e oltre al ballo cominciava ad appassionarsi al disegno, cosa che – è una mia supposizione – raffinò moltissimo grazie al prolungato uso di oppio, che forse la fecondò ma per qualche anno le complicò molto la vita.
A Napoli mi sono addormentato leggendo quel fascicoletto in bianco e nero e ascoltando in lontananza i botti dei fuochi d’artificio, provenienti da un quartiere a nord della città. Ne ho parlato con un amico del posto, che mi ha detto che forse erano stati esplosi da qualche clan per comunicare al mondo una notizia: è arrivata la droga.

Raggiungere casa di Gianni è stato più semplice di quanto pensassi. Con Gaetano, il fotografo, senza grande difficoltà abbiamo capito in quale punto parcheggiare, per poi inoltrarci nel bosco. “Vedrai”, mi aveva detto Gianni al telefono, “basta mettere un piede dentro e sei in Amazzonia”. Indosso ho una camicia a scacchi, simile a quella portata da Jack Kerouac, quando venne fotografato semiaddormentato su un sofà durante un party a Milano. Gianni era sul sentiero ad aspettarci e insieme siamo risaliti verso quel luogo scoperto 45 anni fa e mai più abbandonato. Dopo una mezz’ora di marcia, tra le felci, l’aria fresca e i versi d’uccellino, siamo arrivati di fronte alle sbarre di un piccolo cancello. Avevo già visto qualche foto, ma la muschiata spazialità del luogo, la sua vivida tridimensionalità, la vastità e l’altezza cangiante delle rocce color pesca che attorniano la casa, non sono facilmente riproducibili. Bisogna starci in mezzo e muovere lo sguardo a 360 gradi.

Al cancello ci hanno accolto i tanti animali di Gianni e in particolare i suoi diciotto cani, dei bastardini, poco o nulla abituati alla presenza dell’uomo. Perciò alla vista di me e Gaetano ci hanno circondato e hanno cominciato a guaire e ad abbaiare. Gianni mi ha fatto l’elenco dei rispettivi nomi: dalla A di Avalon fino alla S di Shosho, passando per Chapati e Monday. Uno dei primi oggetti che mi ha mostrato, arrivati in casa, è stato un foglio di carta spesso come un papiro, riempito da una grafia accurata, elegantissima, con cui si ricostruisce la genealogia delle centinaia di cani cresciuti qui tra il 1971 e il 2013: “Buffles son of Minnie”; “Smokey daughter of Janis” e così via. Insomma, un pezzo d’arte che mi ha incantato, mentre sedevo all’interno dell’abitazione di Gianni, che non ha mai avuto corrente elettrica. Mai in questi 45 anni e mai in tutta la sua lunga storia. Così come non esiste un bagno. Però c’è un telefono (a cui Gianni risponde sempre con un giovialissimo Hallo!?) collegato a Telecom grazie a un cavo lunghissimo, che aderisce a una parete rocciosa e poi s’immerge nel fitto del bosco, sibilando tra un’infinità di chiome verdi e tronchi d’albero, fino a rispuntare nella luce del sole, sulla strada per Amalfi. Con la pioggia a volte non funziona.

La casa consiste di una sola minuscola stanza, che ha l’aspetto di un santuario, dove si trovano un letto a soppalco in castagno, costruito da un artigiano locale negli anni ‘60, come nuovo, dei bauli, due sedie sfondate ma preziose, un caminetto, delle mensole con dei libri, disegni di Vali appesi ovunque alle pareti decorate, e in alto, accanto al materasso sul soppalco, una grande gabbia, di cui Gianni mi racconterà. Intanto ci sediamo e io non so da dove cominciare questa conversazione, in cui può intrecciarsi di tutto, come in internet o in un tappeto persiano. Oceania, Europa, America, il dopoguerra, opere d’arte, metropoli, uomini, cani, volpi, rospi, ere culturali trapassate, musicisti e artisti come Giotta Fuyo Tajiri e Ching Ho Cheng, di cui non avevo mai sentito dire.

Gianni ascolta il mio preambolo e precisa che Vali non può essere identificata con gli esistenzialisti. Un po’ perché non amava l’etichetta, e le etichette in genere, un po’ perché non voleva essere confusa con tipi come Jean Paul Sartre e altre teste d’uovo. “Detestava gli intellettuali”. La frase non mi sorprende ma un po’ mi ferisce, dal momento che mi capita di venire associato a quella categoria, che neppure a me piace. Quindi questo fatto vuol dire che forse, se ci fossimo incontrati, non sarei piaciuto a Vali. Troppo diverso da lei: un intellettuale. Ma se il simile è attratto dal simile, allora, mi chiedo, che cosa c’è di affine tra me, Vali e Gianni? Perché sono arrivato fin qui? Che cosa mi ha attratto? Senz’altro l’erotismo che per me questa storia sprigiona. A proposito di sangue mestruale: Gianni mi dice che Vali infilò giusto una goccia di sangue in un quadro. Il resto è leggenda.

Vali ha circa 70 anni e si trova in un bar, quando a un certo punto arriva un tizio che le fa: “E tu chi sei?”. Vali gli risponde “Bruce Lee”.

A pagina 14 del bellissimo e a tratti sconcertante memoir scritto da Gianni e pubblicato negli Stati Uniti (spero che qualcuno lo traduca in Italia) viene descritta questa scena: Vali è ancora in Australia e si trova a una festa, sul terrazzo al secondo piano di una casa, quando all’improvviso un flusso di sangue mestruale le cola lungo le gambe e lei crolla e cade dal terrazzo in strada, rompendosi il collo e qualche dente. Ma ora chiedo a Gianni di raccontarmi tutta la storia da capo. Quando si stabilì Vali a Positano? Nel 1958, più o meno. E in compagnia di chi? Di Rudi Rappold, suo marito. Non era la prima volta che arrivavano da quelle parti. Avevano scoperto quella costruzione nel bosco, risalente forse al ‘700, molti anni prima, nel 1952, nel corso di un viaggio in autostop.

Ma è nel 1958, al termine dei suoi opium years, che Vali si stabilisce qui e insieme a decine di animali, compreso un asino che le passeggia per casa, scompare completamente dal mondo, per oltre dieci anni, mentre fuori succede di tutto, a cominciare dallo scoppio della contestazione. In questo periodo Vali disegna moltissimo. Il suo stile è qualcosa che sta “tra HR Giger e una strana commistione tra arte nordeuropea e africana”. Così ha provato a definirlo un amico, Lupo Borgonovo, osservando per la prima volta qualche disegno. Io vedo un po’ di Secessionismo viennese e un cupo espressionismo unito a una febbre, a un calore materno, specie quando osservo quelle spire cremose che sembrano masticare, avvolgere e proteggere le figure tra le pareti viscide di uno stomaco. In qualche modo, alcuni di questi disegni tenebrosi e caldissimi, mi sembrano come delle crostate morbide appena uscite da un forno.

Mentre il mondo si prepara al ’68, Vali e Rudi vivono in comunione assoluta con gli animali. Il culmine di questo sodalizio è il rapporto privilegiato con una volpe, Foxy, che Vali riesce quasi ad addomesticare, nonostante spesso le devasti la stanza o faccia strage dei topolini lasciati liberi di fare il nido nel caminetto. Foxy è l’animale che disegna più spesso e col quale Vali entra più in risonanza, fino a diventare per lei una musa e il soggetto di molti ritratti. Anche Gianni riuscì a maturare una certa complicità con la volpe, di cui ricorda come una visione mistica i riflessi ambrati della pelliccia e l’occhio sempre all’erta, di notte, quando sedeva su una specie di trono alla luce della lampada a gas.

Marito e moglie lasciano il canyon solo di rado, per andare a ballare in qualche club sulla costiera, come la Buca di Bacco o l’Africana, dove si ritrova una clientela internazionale: gagà, artisti, attori dello spaghetti western. Una fauna simile a quella che popola il locale a Capri in cui si ambientano alcune scene di Totò a colori. Rudi e Vali si presentano così come sono, scalzi, randagi. Vanno e tornano a piedi, di notte. A volte vengono cacciati. Veniamo a Gianni. Gianni è ancora un ragazzo. Tra lui e Vali ci sono 22 anni di differenza. L’anno in cui Vali scopre per la prima volta Positano, il 1952, è l’anno in cui Gianni viene al mondo, in un paesino medievale di origini etrusche, Casole d’Elsa, in provincia di Siena.

La famiglia Menichetti è di estrazione contadina. Il padre conosce a memoria Dante e l’Ariosto. Quando Gianni compie quattro anni si trasferiscono a Firenze. Adora il greco e il latino ma s’iscrive all’Istituto Magistrale, anche perché “non appartenenevo alla borghesia”. Si descrive come un solitario. Durante un festival del cinema a Firenze, ricorda di aver visto la locandina di Vali, the witch of Positano, altro documentario dedicato alla sua futura amante. Dopo la maturità decide di provare a Napoli con Lingue orientali, ma non s’iscriverà mai. Comincia a vagabondare, dorme di notte lungo il rettifilo, cioè il corso Umberto I che dalla stazione porta dritto verso il centro universitario. Dice che all’epoca Napoli era come Bombay, Istanbul. La sua vita ricorda in questa fase quella narrata da Renato Curcio in A viso aperto, quando racconta del periodo in cui, prima di entrare a Sociologia di Trento, vagabondò per Genova, dormendo sulle panchine e frequentando i giovani scappati di casa, gli emigrati senza tetto e quelli che Marco Pannella definì sottoproletari anfetaminizzati.

È nel 1958 che Vali si stabilisce qui e, insieme a decine di animali, scompare completamente dal mondo, per oltre dieci anni, mentre fuori succede di tutto, a cominciare dallo scoppio della contestazione.

Tramite un’amicizia comune, Gianni arriva finalmente a Positano. Scoppia un colpo di fulmine, per lei, per quel luogo sprofondato in un canyon, per gli animali. Ma più che un colpo di fulmine, un sortilegio. Questa è la storia del primo capitolo della sua vita. Inciso: Vali Myers è anche detta la strega (se non altro per l’immagine wiccan sfoggiata in alcune foto) ma secondo Gianni strega è una parola fuorviante. Lui preferisce spirito pagano, che in fondo, penso, è un’espressione concettualmente molto vicina a strega.

Il secondo capitolo della vita di Gianni inizia quando Vali, che ha accumulato un portfolio non indifferente, gli chiede di accudire per lei gli animali, mentre con Rudi se ne va per un breve periodo a New York, in cerca di acquirenti e collezionisti. Quando tornano, Gianni non se ne va. Come un cane resta nei dintorni e per un mese dorme in una caverna scavata lungo una parete del canyon. Intanto l’amore con Vali esplode –come documentato nel film di Ed Van Der Elsken- mentre la storia di lei con Rudi va alla deriva, complice l’alcolismo di lui, fino a quando Rudi lascia Positano e Gianni diventa l’amante di Vali. O meglio, per usare le sue parole: la sua sailor’s wife, dato che Gianni custodisce il focolare, mentre per tutti gli anni ’70 Vali va e viene da New York e da Amsterdam, dove coltiva la sua attività di artista. Quando torna, Gianni di notte le legge le saghe degli aborigeni e soprattutto Moby Dick, innumerevoli volte. Come biasimarli. Entrambi scrivono, disegnano e provvedono agli animali.

Questa è la loro vita, fino agli anni Novanta, quando inizia un periodo di grandi sofferenze, specie per Gianni, come si racconta nella parte più controversa e toccante del memoir. Vali, dopo più di quarant’anni, comincia ciclicamente a tornare in Australia, dove morirà nel 2003 di cancro allo stomaco.

Sopra una mensola in alto noto una fila di libri. Mi arrampico sulla scaletta che porta di sopra, sul letto a soppalco, per poterli vedere da vicino. Le costolette sono avvolte in una leggera ragnatela. Aguzzando lo sguardo, scopro che la stanza qua e là è disseminata dello scintillio di altre ragnatele. Così chiedo a Gianni se non le abbia spazzate via, come farebbe chiunque, per una forma di rispetto e pietà per la vita dei ragni. È così, in effetti, e per spiegarmi fa un accenno al giainismo, l’antica filosofia indiana che lo ispira nel suo amore per le forme di vita più umili: i lombrichi, gli insetti, la salamandrina terdigitata che vive in questa zona o i girini di cui la grande vasca fuori dalla casa trabocca. Nel giro di giorni un’armata di ranocchie invaderà lo spazio vitale dei cani, dei polli, rendendo ancora più plastico e vibrante l’antispecismo sovrano instaurato su questo fazzoletto di terra.

Ecco il numero della Paris review della primavera 1958, di cui avevo letto. Dentro si parla di Vali Myers, in un lungo ritratto firmato dal direttore George Plimpton. La carta è imbrunita dalla polvere, dai depositi terrosi, e ha il tono giallastro, la consistenza, delle ali di una falena. È un tuffo al cuore ritrovare qua, in questo canyon, un pezzo di tale valore. Se per il feticista antiquario la libidine si collega anche al luogo in cui il reperto viene ritrovato, in questo caso il godimento è davvero massimo. Nel numero è contenuto anche il racconto di un giovanissimo Philip Roth, The convertion of the jews, che Gianni, con una risata, mi assicura essere divertentissimo. Poi, combinazione, mi torna in mente dove avevo già sentito quella parola, ‘Giainismo’: era in Pastorale americana, il romanzo di Philip Roth. Se non erro la figlia di Seymour Levov, il protagonista, si lascia quasi morire di fame pur di non disturbare la vita di altri esseri viventi, infliggendo un dolore terribile al padre.

E quali sono stati i rapporti tra Gianni e i genitori? Gianni a suo tempo troncò con la famiglia. I rapporti con suo padre e la sorella sono rimasti buoni, mentre per la madre restò uno choc, mille anni fa, vederlo tornare a Firenze col volto tatuato. Al funerale dei genitori non c’era, ma del resto nemmeno a quello di Vali. Per lui non aveva senso. Sembra una mancanza crudele, eppure Gianni mi è sembrato, almeno oggi, a 64 anni, una persona assolutamente perbene, consapevole, limpida, con una bella e armonica risata. Mai stato dal medico in cinquant’anni.

C’è un altro aspetto, che mi appare ancora più evidente quando mi accenna dei suoi poemi in ottave composti per alcune capre. La passione per le rime e la poesia che gli derivano dal padre contadino, l’accento toscano intatto, lo collegano alla storia profonda e alla civiltà del nostro paese, molto più di quanto non lo sia la maggior parte di chi, come me, si collega a internet ogni cinque minuti. In questo luogo, in fondo, Gianni si è conservato e così facendo ha mantenuto in sé una storia che lo trascende e che altrimenti, esposta all’azione di altri fattori -la tv degli anni ’80? Il berlusconismo?- forse sarebbe stata liquidata.

Nella gabbia costruita accanto al letto, che vedo alla sinistra del materasso sul soppalco, Vali Myers si andava a chiudere in raccoglimento. Era un omaggio alla gabbia di George, un gallo che aveva molto amato, e un ricordo delle gabbie in cui aveva visto esposte le prostitute di Grant Street a Bombay e infine un memento della condizione umana e universale: la libertà non esiste. “E Mick Jagger?”, chiedo a Gianni. Mick Jagger esiste e un giorno venne proprio qui, in questa casa.

Arrivò con Marianne Faithfull, entrò da quel cancello, fece tutto il vialetto, circondato dal corteo dei cani, e poi andò ad accomodarsi sul letto, passando di fronte alla sedia in cui sono seduto. Così Vali aveva raccontato a Gianni. Mick era un ragazzo molto riservato, educato, un lord amante della poesia antica. Questo le era sembrato, mentre lei se ne stava chiusa nella gabbietta e Mick e Marianne seduti sul materasso. Anche Donovan si presentò un giorno sul cancello. “I’m Donovan”, disse, e Rudi gli rispose: “And i am Rudy, fuck you!”. Poi diventarono amici.

C’era un’usanza tra gli hippie che viaggiavano in Asia. A un certo punto bruciavano i documenti d’identità, o li facevano a pezzi, per dimenticare chi erano stati e finalmente sparire.

A Gianni giro un paio di domande che mi sono fatto spedire da Brittany, una ragazza della Pennsylvania che su internet tiene un ricchissimo Tumblr dedicato a Vali Myers. Il Tumblr è pieno d’immagini, non potrebbe essere altrimenti, ma sento che condivide con me, e altre persone sparse per il mondo e connesse, un feticismo un po’ patologico, che si nutre di mitologie esotiche. Più sono oscure e trapassate, maggiore è la vertigine. È su quel Tumblr che ho trovato questo squisito aneddoto: Vali ha circa 70 anni e si trova in un bar, quando a un certo punto arriva un tizio che le fa: “E tu chi sei?”. Vali gli risponde “Bruce Lee” e con una specie di mossa di karate gli scaraventa il bicchiere di birra dall’altra parte del locale.

In Australia, a Melbourne, esiste un trust dedicato a Vali Myers. Mi piacerebbe andarci e contemplare i suoi stupendi diari, capolavori di calligrafia. Sfoglio un album di disegni raffinatissimi. Sono di Gianni, stavolta. Ogni tanto fa delle mostre. Ora è pomeriggio inoltrato. Sento il bisogno di uscire da questa stanza. Quando Gianni mi ha nominato l’esistenza, un tempo, di un nido di topi nel camino e di un altro sotto il letto, ho cambiato improvvisamente umore e ho cominciato a chiedermi fino a dove può spingersi il giainismo. Forse fino all’amore e alla tolleranza per le pulci, le zecche? Il pensiero mi ha messo addosso una certa inquietudine. Così mi è sembrato di sentire le caviglie e le braccia formicolare, come succede a quel personaggio di un romanzo di Philip Dick, e sono uscito. Subito mi hanno circondato i cani, abbaiando, colpendomi sui polpacci con le loro code bionde e rossicce.

Ho fatto un giro nei pressi del pollaio, dove Gaetano stava scattando qualche foto. Lì ho verificato sull’iPhone che quanto registrato, tutto il meraviglioso racconto di Gianni, fosse salvo e al sicuro. Ho schiacciato play. Il file si apre con il rumore di un filo d’acqua, di un bicchiere posato e di un grido: Fragolaaaa. E poi il nome di un altro cane: Shoshooo. È la voce di una giovane ragazza, la compagna di Gianni, che con lui da quattro anni condivide la vita nel canyon. Posso solo dire che è molto in gamba, molto bella e molto riservata. Non ha acconsentito a riportare altro sul suo conto, se non questo: tempo fa ha letto il libro di Gianni su Vali, quindi si sono scritti qualche mail, poi lettere di carta e alla fine lei ha preso un aereo e lo ha raggiunto qui, dov’è spuntata come una gemma sul verde albero genealogico del posto. Vali, Rudi, Gianni e adesso lei.
Gianni mi raggiunge all’aperto. Da qualche parte qua intorno dev’esserci lo stagno dove Vali, di notte, portava il cibo a un anguilla, chiamata Black Prince, recitandogli un verso di Edith Sitwell:

“Munza rattles his bones in the dust
Lurks in the murk because he must”.

Mi rendo conto di non aver chiesto a Gianni del tatuaggio che porta sulla fronte. Mi dice che fu Vali a disegnarlo, così come lui fu il tatuatore di Vali. Da principio pensavo si trattasse di una specie di Bindi, il simbolo indiano, e invece no: è l’impronta della zampa di una volpe. “A Napoli c’è gente che dopo avermi visto i tatuaggi mi ha detto: si stat’ puru tu ‘a Poggioreale?”. Ecco che Gianni si china a terra e solleva il corpo di una tartaruga. “Testudo hermanni”. La prendo tra le dita. Si chiama Winnie. Una coppia di tedeschi la regalò a un’altra coppia di tedeschi che poi la regalò a Vali. “E quanti anni ha?”. “117”. Classe 1899. Mi torna in mente una storia che ascoltai non ricordo più quando. C’era un’usanza tra gli hippie che viaggiavano in Asia. A un certo punto bruciavano i documenti d’identità, o li facevano a pezzi, per dimenticare chi erano stati e finalmente sparire.
 

Casa dolce fabbrica

“Se vi ricordate anni fa aprendo il cofano di un’auto si vedevano motori mediamente sporchi, con perdite piccole o grandi. Oggi questo non accade più, e lo si deve soprattutto all’evoluzione delle guarnizioni in gomma. E qui a Bergamo, un intero distretto ha fatto delle guarnizioni il proprio punto di forza, diventando leader mondiale nel prodotto. Ma in termini tecnologici e produttivi che cosa si nasconde, cosa serve per realizzare questi oggetti? Andiamo in fabbrica!”.
[Luca Orlando de Il Sole 24 Ore introduce l’episodio della video-rubrica In Fabbrica dedicata al distretto della gomma].

Alle 9 di mattina lei guardava lui tuffare grossi pezzi di pane in una scodella colma di latte, mentre sfilava le prime guarnizioni della giornata pescate dal cumulo sversato sul tappeto del soggiorno. Di quel cumulo ora restano solo alcuni scarti sparpagliati sul pavimento, come le briciole di pane sul piatto della colazione rimasto ai piedi del divano. La gomma già lavorata, invece, è stata subito rimessa in un sacco e spostata sul terrazzo, tra il materiale già pulito e quello ancora da pulire.

S., il capofamiglia, è senegalese. Ha 53 anni ed è in Italia da quando ne aveva 30. Dal 1996 fa l’operaio in una fabbrica di plastica. Sua moglie M. di anni ne ha 36, fa la casalinga, cresce tre bambini, e durante il giorno pulisce guarnizioni. Marito e moglie siedono sul divano, uno accanto all’altra, con le mani che non smettono mai di sfilare gli anelli dagli stampi.

“Ci conosciamo da quando siamo piccoli” dice lui. “Siamo cugini, lei porta il nome di mia madre”. L’inflessione wolof, la lingua parlata in Senegal e in parte dell’Africa occidentale, è ancora fortissima nonostante i ventitré anni trascorsi in Italia, da Catania a Catanzaro per i primi tempi, infine Bergamo.
Si sono sposati a Touba, in Senegal, nel 2001. “La città santa” la chiamano. Entrambi sono musulmani, “Muride” per la precisione, membri della Muridiyya, una confraternita islamica tipicamente senegalese. Da giovani facevano i commercianti di frutta e verdura, S. aiutava anche il padre nella coltivazione di arachidi a Casamance, la regione meridionale del paese. Quello del 2001 per lui era il secondo matrimonio, dal primo è nato un maschio che ha 21 anni e al momento è fuori casa per un colloquio di lavoro.
“Ci siamo innamorati con dei piccoli gesti” racconta S., lei sorride, insieme avvinghiano le dita ai polipetti in gomma per vincerne i preziosi anelli. Piccoli gesti anche questi: rapidi, automatici, quasi involontari.

«Ci siamo innamorati con dei piccoli gesti” racconta S., lei sorride, insieme avvinghiano le dita ai polipetti in gomma per vincerne i preziosi anelli. Piccoli gesti anche questi: rapidi, automatici, quasi involontari»

Lo sguardo di entrambi ondeggia tra le mani e la TV accesa sull’emittente senegalese Téle Futurs Medias. In un talkshow un predicatore discute a gran voce tagliando l’aria con l’indice dritto, “parla del profeta Muhammad” dice S.
Sulla TV italiana di solito guarda dei documentari o un programma che si chiama Affari in famiglia. Ripenso a un conoscente visto pochi giorni prima. Anche la sua famiglia era della Val Calepio, e anche la sua famiglia lavorava le guarnizioni davanti alla TV. Erano gli anni Settanta però.

“I nostri vecchi sgranavano il granturco nelle cascine, noi figli dell’industrializzazione le guarnizioni davanti alla televisione” aveva detto. “Non avevamo un cazzo ma ci facevano vedere I miserabili e andavamo a letto felici”.

Senza mai smettere di lavorare, marito e moglie raccontano che le guarnizioni sono entrate nella loro vita nel 2008. A quel tempo insieme avevano già avuto due figli maschi, una femmina sarebbe arrivata nel 2010, quando la gomma abitava la casa già da due anni. Le avevano viste fare a degli amici e avevano pensato potesse essere un buon modo per incrementare le entrate. In fin dei conti potevano guadagnare restando seduti sul divano, non sembrava così male. Tutt’oggi non gli sembra così male, e non sono i soli a pensarla così: “Abbiamo dei parenti verso Brescia che vorrebbero fare le guarnizioni” dice M. “ma lì le guarnizioni non arrivano”.

Basta poco per farsi un’idea di un fenomeno sotterraneo e ben diffuso. Distribuite per la Val Calepio, famiglie di senegalesi, pakistani, indiani, puliscono quintali di guarnizioni ogni mese, a ogni ora, in ogni stagione. Come fantasmi si imprigionano nei salotti, nelle cantine, nei garage delle case popolari e di condomìni in stile anni Settanta, alla rincorsa dei propri limiti, perpetuando una tradizione che a quanto pare ha più di quarant’anni. Un mondo di sotto della provincia bergamasca che in superficie è sempre e comunque fieramente operosa, ordinata, per bene.

Funziona così: una telefonata alla ditta e un addetto arriva in pochi giorni a consegnare qualche sacco pieno di guarnizioni da lavorare. Ha una regolare bolla di consegna con quantità al dettaglio del materiale e relativo peso, No matter what the future holds è il claim che troneggia in testa. Scadenze la ditta non ne dà, certo è che non ti puoi tenere le guarnizioni a far da soprammobile, le grandi multinazionali dell’automobile non possono aspettare. E poi, più velocemente lavori, più lavorerai, in una corsa tra manodopera a basso costo a chi produce di più in minor tempo, a chi si accaparra prima ciò che potrebbe accaparrarsi un altro. All’incirca 0,0016€ per ogni singolo anello sfilato.

“Quasi non ci vediamo” spiega S., ha i gomiti appoggiati alle ginocchia, più di un metro e novanta ripiegato su sé stesso. Nelle sue mani le guarnizioni sembrano coriandoli. “Quello della ditta arriva e lascia tutto giù in garage. Io quando finisco faccio la stessa cosa, porto giù tutto per quando passa a ritirare. Quasi non ci vediamo” ripete.

Il contratto di lavoro lo fa una cooperativa che si occupa di impiego domestico. Un contratto non-contratto, a cottimo, sottopagato. Sembra una novella verghiana, centocinquant’anni dopo.
Raccontano della volta in cui sono arrivati i Carabinieri chiamati da chissà chi nei dintorni, probabilmente qualche vicino infastidito dall’odore di gomma che emana la guarnizione, qualcosa che ti si attacca in gola e non se ne va più. Fu un nulla di fatto quella visita, non c’era nulla di irregolare.

“Caffè?” chiede M. alzandosi dal divano. Indossa un lungo vestito nero e viola, il movimento le scosta i capelli scoprendo un orecchino di perla. A piedi nudi sparisce verso la cucina, due minuti ed è già di ritorno. “È un po’ piccante” dice porgendo la tazzina, la voce è un soffio. “È fatto con una spezia tipo ginger, ma un po’ diversa, in semi, si chiama djar in lingua wolof”. Si risiede accanto al marito e si rimette al lavoro.

Un sorso del “café Touba” e chiedo di più su quanto riescano a guadagnare da questa faccenda.

“1,6€ ogni mille pezzi” mormora lui dopo aver lanciato nel secchio un mazzetto di guarnizioni pulite. “1,6€ ogni mille pezzi. E mille pezzi sono più o meno un chilo. Calcolano il prezzo in base al peso” spiega. “Puoi staccare guarnizioni tutto il giorno senza fare 15€. È poco, sì. Sul prezzo loro dicono se è così, è così. Ma è meglio di niente, meglio di stare senza fare niente dico io. Non è un lavoro faticoso, serve solo pazienza. Poi dipende da te, se fai di più e più velocemente, prendi di più. Noi riusciamo a fare 350€, a volte 400€. Dipende”. Si gira verso la moglie e continua. “Lei fa fatica. Non ha più le unghie quasi, si spezzano presto”.

Qui tutta la famiglia lavora le guarnizioni, ognuno contribuisce come può. Bambini inclusi, seppur in misura minore rispetto agli adulti perché “si stancano presto”, e rigorosamente solo dopo aver finito i compiti. Mentre le fanno giocano a Clash of Clans sull’iPad o guardano i cartoni animati. Uno di loro dirà che “le guarnizioni tengono insieme la famiglia, la tengono unita in unico ambiente”. I tre più piccoli non hanno nemmeno memoria di una vita senza guarnizioni, di una casa senza gomma nera per più di trenta giorni. “Non ne vediamo nei giorni da metà agosto a metà settembre, perché le guarnizioni vanno in vacanza, e per un mese più o meno non vengono più” dirà la bambina, 7 anni.

«Le guarnizioni tengono insieme la famiglia, la tengono unita in unico ambiente»

Per guadagnare la cifra di cui parla S. devono riuscire a pulirne tra le 220 e le 250mila al mese. Corrispondono a circa 250 chili di gomma transitanti per casa, e che giacciono continuamente qua e là sul tappeto, tra i cuscini del divano, sui materassi in soggiorno, in terrazza. Le guarnizioni sono lì quando si svegliano, quando mangiano, quando si lavano, quando i bambini fanno i compiti, quando vanno a dormire. Ci sono quando in casa non c’è nessuno. Sono sempre lì, anche durante la preghiera.

Il papà prega cinque volte al giorno, quando i turni in fabbrica lo concedono. Come vuole la consuetudine, seguendo il movimento del sole. Prega nonostante la dottrina che segue non ne faccia obbligo. Alcuni murid, infatti, possono astenersi anche dal digiuno del Ramadan, purché durante il giorno cucinino e si diano da fare per chi invece osserva il precetto. Si tratta della corrente dei bay Fall, di cui tutta la famiglia fa parte, e che spesso è accusata da altre correnti di intemperanza e scarsa osservanza delle pratiche islamiche. Uno dei principi dei bay Fall è la santificazione del lavoro, considerato alla stregua della preghiera: il servizio più alto che il discepolo può rendere in quanto fedele è portare all’estremo l’etica del lavoro.

Uno dei principi dei bay Fall è la santificazione del lavoro, considerato alla stregua della preghiera: il servizio più alto che il discepolo può rendere in quanto fedele è portare all’estremo l’etica del lavoro.

“Ormai sono abituato” dice S. “A volte arrivo dal lavoro, lì ho a che fare con le presse che stampano cassette in plastica tipo quelle della frutta, e alle dieci e mezza di sera e mi siedo a guardare la TV e a fare le guarnizioni fino a mezzanotte, l’una. Quasi non mi piace tornare a casa e non far niente, sono abituato a fare sempre qualcosa, qualunque cosa. Anche il sabato e la domenica, se non ci sono le guarnizioni mi stanco di riposare. Il sabato e la domenica quasi mi danno fastidio”.

La TV inizia a trasmettere il programma Il banco dei pegni. Per un attimo cala il silenzio, quasi che le parole appena pronunciate ci imponessero una riflessione. In sottofondo resta un rumore delicato e leggerissimo, il crepitio dei filamenti di gomma che si toccano, sbattono, cadono uno sopra l’altro. È il suono delle guarnizioni.
Sul tappeto dove le stiamo pulendo siamo tutti scalzi, come in una moschea. Le scarpe sono rimaste fuori dal perimetro, schierate in coppia una accanto all’altra. Gli anelli ci scorrono tra le dita come grani di un rosario. “La Mecca è da quella parte” dice S., e con il dito indica la portafinestra che apre alla terrazza. Una direttrice che per prima cosa s’imbatte nei sacchi della gomma ancora da pulire.

«La Mecca è da quella parte» dice S., e con il dito indica la portafinestra che apre alla terrazza. Una direttrice che per prima cosa s’imbatte nei sacchi della gomma ancora da pulire.

All’interno, le pareti del soggiorno sono completamente spoglie. Nessuna fotografia di famiglia, nessun quadro, nessun suppellettile appeso ai muri o poggiato su una mensola. Non ci sono mensole. C’è un grande armadio da soggiorno, un orologio sopra la tv e un disegno di un pupazzo di neve con scritto “Buon Natale” sopra la porta d’ingresso. Le uniche immagini che dominano indisturbate le pareti ritraggono leader religiosi senegalesi. Uno di questi è Ahmadou Bamba, fondatore della Muridiyya.

Poco distante, sul lato di una colonna che divide il soggiorno dalla zona notte, è appesa una fotografia in primo piano di una donna. Porta un copricapo verde e arancione in pendant con il vestito che appena si intuisce. Le labbra e gli occhi brillano, hanno il colore del rame.
“Questa è la mamma a una festa in Senegal” dice D. passandogli accanto. Ha 11 anni, in mano regge lo zaino di Spiderman e uno di quei quaderni elementari rilegati con la copertina in plastica a tinta unita. Rosso: musica. Lo getta sul divano accanto a uno stampo di gomma scappato dal gruppo.

Fuori ormai si è fatto buio. Lo scuro sembra invadere il soggiorno e soffocare la luce della lampadina agganciata al soffitto. L’odore di fritto, residuo della cena, ha invaso il soggiorno ora abitato dai bambini al completo. Una femmina e due maschi. 7, 11 e 13 anni. Il più grande – il fratellastro – è al lavoro sul divano, dove qualche ora prima sedeva il padre, ora in fabbrica per il turno fino alle 22.

Porta dei calzini bianchi ai piedi che si stanno completamente ricoprendo di scarti di lavorazione. Lavora e aspetta in silenzio l’inizio della partita di qualificazione ai mondiali, Albania-Italia. Prima raccontava della sua esperienza di tre anni in Senegal, alla scuola coranica, dove si va a imparare il Corano “per lo stesso motivo per cui qui si imparano i Promessi Sposi”. Diceva di come Fabri Fibra ormai si sia venduto, e che di Stevie Wonder proprio non aveva sentito parlare.
Sua madre, lì accanto, quasi non si è mossa per tutto il giorno dal posto di lavoro, se non per cucinare o riprendere i figli a scuola all’ora di pranzo.

“Domani in classe abbiamo la verifica sull’Inno alla Gioia”, dice D. prendendo dallo zaino il flauto. SI-SI-DO-RE-RE-DO-SI-LA-SOL-SOL… il fraseggio è preciso, è preparato. Pare soddisfatto di sé stesso. Anche lui fa le guarnizioni, ogni tanto, “ma solo dopo aver fatto i compiti”, specifica.

La verifica dell’indomani includerà anche l’analisi de Il carnevale degli animali di Charles Camille Saint-Saëns, opera in cui i brani richiamano vari animali simulandone versi e movimenti attraverso gli strumenti. “Se non mi sbaglio il ritmo della musica ti fa pensare alla velocità di questi animali” dice lui sfogliando il libro, ma non ne è molto convinto, e cerca di rimediare.

“Per esempio. La musica delle guarnizioni potrebbe essere prima leggera e poi forte, leggera e poi forte, leggera e forte. Una ripetizione continua… buco la gomma e sfilo, buco la gomma e sfilo, buco e sfilo. Un violino sarebbe ottimo per suonarla, perché fa un movimento fluido e lungo, come quando sfili la gomma. E alla fine lanci tutto nel secchio”.

«La musica delle guarnizioni potrebbe essere prima leggera e poi forte, leggera e poi forte, leggera e forte. Una ripetizione continua… buco la gomma e sfilo, buco la gomma e sfilo, buco e sfilo»

Le chiacchiere a fiume di questi ragazzini riportano la luce nell’ombroso soggiorno della gomma. In TV c’è la partita, a ogni break pubblicitario parte il jingle con le note dell’Inno alla Gioia. Poco prima, durante l’esecuzione degli inni nazionali, tutti i ragazzi si sono messi a canticchiare a bassa voce l’inno di Mameli, continuando nelle proprie attività.

G., 13 anni, sta giocando a Clash of Clans. Gli piace perché “ti consente di avere senso di responsabilità e di imparare a gestire le tue risorse”. Di solito ci gioca anche mentre pulisce le guarnizioni. Senza distogliere lo sguardo dallo schermo, svela le migliori tecniche di sbavatura da lui sperimentate per minimizzare i tempi e massimizzare la resa – alcune non condivise dagli altri fratelli.

“Quel lavoro le mie mani sanno farlo anche da sole, è come se avessero gli occhi. Posso farlo anche a occhi chiusi” dice. Un attimo di silenzio e aggiunge: “Mi ricordo di un sogno. Era una giornata di inverno ed eravamo tutti qui in mezzo al tappeto. C’era una stufa e stavamo facendo le guarnizioni”.

Dal deserto al Friuli – I Tuareg di Pordenone

«Dicono che, per stare bene dove si allunga un’ombra, bisogna prendere il colore della sua oscurità».
Moulla mi rivolge un leggero sorriso. È un signore di mezza età, la testa ricoperta di piccoli ricci bianchi. Parla piano e lentamente, i suoi occhi vagano lungo le pareti blu della stanza, tornando a me quando gli sembra che la frase sia conclusa.

«Fa parte dell’educazione dei tuareg, ovunque vanno, non dire mai siamo stranieri o siamo immigrati. Noi siamo cittadini, perché dappertutto consideriamo quel paese proprietà di nessuno. Dove chi si comporta e lavora bene non ha mai la sensazione di essere straniero. E questa terra è sua perché chi lo sa, magari muore qua». Parla in terza persona, ma capisco che sta riferendo questa eventualità a se stesso. L’affermazione è accolta dai presenti con un silenzio rispettoso e tranquillo.

Siamo nel salotto di Mohammed, che ci ha accolti a casa sua ma rimarrà sempre zitto, ad esclusione di alcuni brevi commenti in tamasheq, la lingua del popolo tuareg – una lingua berbera. Suo figlio Abdouljalil si è addormentato disteso sopra uno dei vecchi divani che arredano la stanza, a metà della conversazione comincia a sospirare quasi impercettibilmente. Mohammed e Moussa gli sfilano con delicatezza la casacchetta del Milan che aveva addosso quando è venuto ad aprirmi.
Da un lato del salotto, le persiane della portafinestra pressoché del tutto abbassate scuriscono ulteriormente la tinta blu dei muri e gettano un’ombra a righe lungo due grossi tappeti, sui quali è appoggiato un bassissimo tavolino nero. È un arredamento che mescola insieme un gusto nordafricano e un senso di mobili trovati, più che scelti.

«Pordenone capitale tuareg» mi dice all’improvviso

In questa abitazione in affitto al piano terra di un reticolo di strade appena fuori dal centro, oggi si sono resi disponibili a incontrarmi alcuni membri della comunità tuareg di Pordenone. L’entrata di ognuno è accolta da reciproci As-Salaam-Alaikum a bassa voce e da una stretta di mano a me.

Mi accolgono in una villetta a schiera sobria ma dagli interni vivaci. Su una parete dell’ingresso, tinteggiato di un arancione gentile, i disegni di Abdouljalil sono stati appesi con adesivi e un piccolo chiodino. Il pavimento è costellato delle scarpe che tutti si tolgono appena entrano, quelle di Abdouljalil giacciono abbandonate l’una distante dall’altra. C’è un certo via vai: la moglie di Mohammed, Ghaicha, sta scaldando qualcosa ai fornelli per la merenda del figlio, poi si ritirerà in camera e non la vedrò più, salvo per lo scatto veloce di una fotografia. Ne prende il posto Moussa, che inizia a preparare un tè: è un ragazzo giovane, ne osservo di spalle la veste azzurro chiaro e il tagelmust indaco arrotolato intorno alla testa, mentre travasa con solennità l’acqua da una piccola teiera ad un’altra, centrandone sempre l’apertura. «Pordenone capitale Tuareg» mi dice all’improvviso. Fa una breve risata e riprende a occuparsi del tè.

Con i suoi cinquanta componenti, un terzo di tutti quelli presenti sul suolo nazionale, la comunità tuareg di Pordenone è anche la più grande in Italia. Numeri importanti in senso assoluto, che rivelano una minor tangibilità dando un’occhiata alle classifiche ISTAT della provincia di Pordenone aggiornate al 2017, dove dei paesi di origine dei tuareg – soprattutto il Niger per la comunità pordenonese, insieme a Mali, Algeria, Burkina Faso e Libia – solo due rientrano nelle prime dieci posizioni, ma con un grosso scarto rispetto alle ben più ampie comunità ghanese e marocchina.

«In Italia trovi tuareg anche a Milano, Roma, Napoli e nelle province di Pisa e Bologna, durante le ferie a volte facciamo un gruppo e andiamo a trovarli. Ma sono nuclei piccoli, famiglie. Qui a Pordenone abbiamo la comunità più grande, siamo proprio cresciuti negli anni. Ma non è che tutti quelli che vengono dai paesi che ti dicevamo siano tuareg», mi mette in guardia Moulla, «alcuni dicono di esserlo e non è vero. Ci è capitato persino che qualcuno ci chiedesse di conoscerci per sapere se siamo tuareg veri». Il ricordo suscita una leggera risata generale.

Cerco di capire meglio che cosa contraddistingua un tuareg: «Per noi essere tuareg non vuol dire mettersi il chèche – un altro modo di indicare il tagelmoust – o parlare la lingua, il tamasheq. È un’identità culturale che portiamo dentro di noi. C’è una parola: ashek».

«È un’identità culturale che portiamo dentro di noi. C’è una parola: ashek».

Per darmene traduzione si apre una breve disquisizione filologica. Mohammed continua a intervenire in tamasheq, ma la cadenza dei suoi interventi mi fa capire che sta seguendo tutto ciò che ci diciamo. Alla fine, i presenti si trovano d’accordo su pudore.
«È una parola chiave, un termine di identificazione che distingue i tuareg da tutte le altre popolazioni. L’essere pulito. Come una costituzione che non puoi violare, non perché ci siano leggi a stabilirlo, ma perché la vergogna di creare un danno alla comunità corrode molto più di qualsiasi norma».

Per spiegare il concetto, Moulla asseconda la mia richiesta di narrarci una storia tuareg, la fiaba di un ladro che si redime dopo scoperto di aver rubato anche a chi non possedeva niente. Lo ascoltano tutti con grande attenzione, come fosse la prima volta che la sentono.

Accompagnato da un tintinnio di vetro, Moussa entra con un vassoio argentato pieno di bicchierini. Impugna una piccola teiera scura e riprende il cerimoniale del tè. Alza la teiera oltre il livello della testa, versando la bevanda con grande precisione. È evidente che gli dà una certa soddisfazione. Me ne versa uno, sa di foglie e zucchero. Mentre lo distribuisce, si accoda al discorso e specifica che il suo villaggio – Abardek, centodieci chilometri da Agadez in Niger – ha millecinquecento abitanti e neanche un poliziotto: «I capi religiosi e i capi tribù gestiscono e dirimono le controversie, ma ashek ti dà una spinta molto grande nel superare le difficoltà. Abbracciando il mondo, che ti viene incontro ovunque tu sia».

Dopo un primo periodo a Brescia, a partire da inizio anni Novanta i Tuareg hanno iniziato a spostarsi verso il capoluogo friulano. Uno dei primi è stato Haddo, presidente uscente dell’associazione Mondo Tuareg, seduto controluce. Entrando si è tolto il cappello. Quando scende il silenzio, riprende sempre a guardarmi e mi invita a porre domande precise, ascolta tutto con grande attenzione: «Brescia è una città con tante industrie, ma l’affitto costa caro. Difficile. Abbiamo saputo che anche Pordenone offriva delle possibilità lavorative, ma che le case erano più accessibili. È stato in primo luogo per questo che l’abbiamo scelta. E gradualmente si è aggiunto uno, poi un altro, poi un altro ancora. Ci siamo trovati bene, perché la città è stata ospitale con noi».

Chiedo ai miei interlocutori quale sia il loro primo ricordo di Pordenone. Per Moulla, neopresidente dell’associazione, è la frase di un’amica di Udine: «L’inizio di vita in un nuovo posto è sempre difficile. Non sapevamo come farci conoscere, come parlare della nostra comunità. Ci disse che, una volta conosciute le persone, qui avremmo avuto dei buoni amici. E noi pian piano ci abbiamo provato. Abbiamo creato l’associazione perché esserci inseriti nella routine lavorativa non ci bastava. Oggi viviamo un’integrazione non più raccontata, ma di reale convivenza”.

Dai racconti dei presenti emerge una quotidianità compenetrata alla vita pordenonese, vissuta con la discrezione di un’abitudine consolidata e raccontata con la linearità di un processo ormai ben avviato: «Molti di noi hanno ottenuto la cittadinanza. I nostri figli giocano insieme a bambini di Pordenone, noi stessi abbiamo molti amici qui e ci facciamo visita l’un l’altro, oppure li invitiamo quando ci incontriamo fra tuareg. Frequentiamo il centro, il sabato ci piace andare al mercato. Abbiamo aperto le case ai nostri vicini e loro le hanno aperte a noi. Siamo in una convivenza ben riuscita. Non tutti sanno che esiste la nostra comunità, ma siamo sempre più parte di questa città».

Ogni tanto qualche cellulare inizia a vibrare. Mi spiegano che sono in corso gli ultimi preparativi per una festa che si terrà di lì a pochi giorni, ospitata in un oratorio: una serata che si concluderà con una lunga passeggiata fino alla piana dei Magredi a Cordenons, una distesa di sassi dove poter preparare il fuoco. Un fiume in secca come reminiscenza più prossima a un ambiente desertico.

La maggioranza dei tuareg residenti a Pordenone lavora in fabbrica, me lo dicono rispettosamente ma non sembrano molto interessati ad approfondire. Nei loro paesi di origine sono abitanti nomadi del più inospitale degli ambienti terrestri, carovanieri attraverso i deserti: «I primi che hanno saputo della colonizzazione in Africa, gli ultimi a non ottenere l’indipendenza» precisa Haddo.
«Il popolo tuareg è nato già così: un paese per noi è stato previsto, ma la storia è andata diversamente. Siamo finiti sotto un’altra colonizzazione, araba a nord e del governo centrale a sud».

Il riferimento di Haddo, che tutti i presenti colgono e condividono con gravità, ripercorre buona parte della storia della repressione dei tuareg e dell’Africa in generale, estendendosi tra l’espansione islamica proveniente da nord a partire dal settimo secolo e la divisione politica degli stati tuareg imposta a inizio Novecento dalla colonizzazione francese, che nel 1909 aprì una mappa e tracciò i confini di Mali, Algeria e Niger. «È una divisione che ha reso impossibile pensare a qualsiasi progetto importante per il nostro popolo. Non avendo un paese in senso proprio, lo diventa ogni luogo in cui andiamo».

E vent’anni di burocrazia italiana e contratti di affitto non hanno cambiato questa spinta al movimento: «Viviamo la vita nomade proprio dentro di noi. Anche qui a Pordenone, siamo persone che vogliono sempre cambiare casa e quartiere, ci trasferiamo spesso. Qui non si può piantare la tenda, però non siamo ancora legati ai quattro muri». Haddo si ferma un istante, sceglie con cura le parole. «La cosa che ci dispiace tanto qui è la mancanza del tempo. Tutti corrono dietro all’orologio, questo è l’aspetto di maggiore sofferenza per noi. Chi è rimasto qui avuto proprio un gran coraggio per superare questa prova».

«Anche qui a Pordenone, siamo persone che vogliono sempre cambiare casa e quartiere, ci trasferiamo spesso. Qui non si può piantare la tenda, però non siamo ancora legati ai quattro muri».

Quella contro la frammentazione del tempo non sembra l’unica sfida che una minoranza etnica si può trovare a vivere nel 2018: lo dico, ma l’osservazione cade nel silenzio. Dopo qualche secondo, Moulla smentisce di aver mai vissuto sulla propria pelle «gli episodi che si vedono in televisione». Mentre lo dice sembra affondarsi ancora di più nella poltrona, quasi a prendere le distanze dallo schermo appeso davanti a sé.

C’è però anche un dato, ed è che i tuareg sono un popolo libero ma attento, forgiato dalla conoscenza degli spazi del deserto e consapevole di ciò che scatenano le risorse nascoste sotto le distese di sabbia. A dirlo sono loro stessi attraverso la loro poesia, che da fine Ottocento ha smesso di dedicarsi alla celebrazione della donna per raccontare una terra ambita e saccheggiata.

«Le poesie antiche cantano la bellezza della donna, degli spazi. È ciò di cui scrivi quando le cose vanno bene. Quando le cose cambiano, le poesie cambiano». Moulla mi getta un’occhiata. «Oggi, la poesia è un incoraggiamento per resistere, la voce dei movimenti di ribellione. Alcuni vorrebbero sgomberare il popolo tuareg: sotto terra, lì, c’è la ricchezza».
Petrolio, rame, oro e diamanti uniti all’improvviso in un solo articolo determinativo.
«È una poesia che si accompagna alla musica. Come un’ambasciatrice, una lancia per far conoscere agli altri questo problema. Spesso i combattenti ribelli registrano queste composizioni su nastro: in Niger, se il governo centrale ti trova con una di queste cassette o con un kalashnikov è la stessa cosa».

Ci diamo appuntamento fra tre giorni, per assistere ai preparativi della festa e incontrare chi oggi non ha potuto raggiungerci. Moussa si offre di riportarmi in stazione in macchina. Appena la accende parte il disco lasciato nello stereo dell’auto: Bombino, che tutti loro conoscono benissimo insieme ai Tinariwen. Colgo un certo orgoglio per il successo italiano ed europeo delle due formazioni tuareg. Quando sto per uscire, Haddo mi saluta con un’espressione pensosa e coglie l’occasione per chiudere un discorso lasciato in sospeso. Colgo che vuole anche farmi capire che, nonostante le reazioni composte, la mia domanda di poco prima è stata capita benissimo: «Prima ci chiedevi di Salvini e non ti abbiamo risposto. È vero che è un momento in cui c’è chi soffia sul fuoco. Ma i fuochi, prima o poi, si spengono».

A casa, mi imbatto in un tutorial di YouTube più che basilare di frasi quotidiane in tamasheq. A parlare è Mohamed Hamza, il volto incorniciato da un turbante bianco, visibile dagli occhi al principio di due grossi baffi: «Nella lingua tuareg non si esprimono i sentimenti. Sarebbe un segno di debolezza, perché il valore del comportamento è valutato non in base a ciò che uno dice, ma in base a ciò che fa. È strano per me quando mi chiedono di tradurre “Buon appetito”, perché noi non lo diciamo. Come tuareg agiamo, più che parlare».

Il sabato seguente torno a Pordenone. È una mattina soleggiata e tranquilla, per strada non c’è nessuno. Su più o meno tutte le pareti esterne degli edifici che compongono l’oratorio San Lorenzo, un anonimo se l’è presa con Pasolini, incalzandolo a colpi di insulti e bomboletta bianca: Pasolini, pensate di insegnarci qualcosa?!.

Le cucine del comprensorio sono invase da un fortissimo odore di carne e cavolo cappuccio, che stanno cuocendo in quantità industriali dentro a pentole gigantesche su cui qualcuno ha scritto a pennarello “Mondo Tuareg”. All’opera, fra svolazzi di vesti colorate e infradito, sei donne, che spostano i pentoloni da un fuoco all’altro chiacchierando tra loro in tamasheq. Al mio arrivo si fanno più riservate. Sono vestite a festa. Vedendomi, una di loro mi coinvolge iniziando a dire in italiano il nome di qualche ingrediente. Mi indica con risposte secche i piatti che stanno preparando, cous cous e fanké, poi si allontana. Appena fuori intravedo Ghaicha, intenta nel taglio di una cassetta di peperoni. Insieme ai tuareg, gli unici presenti a quest’ora sono i volontari dell’Associazione Ritmi e Danze del Mondo di Giavera del Montello, presenti per offrire supporto logistico e incaricati di preparare i piatti della tradizione friulana che saranno serviti questa sera accanto ai corrispondenti africani. Notata la macchina, mi invitano ad aspettare che tutti abbiano guanti, cuffiette e grembiuli, prima di scattare.

In Italia, le donne tuareg hanno mantenuto la funzione esercitata con fierezza nel deserto, la custodia della tenda declinata nella sua variante sedentaria. A raccontarmelo è comunque Moussa, perché tutte le cuoche, oltre a essere concentrate sulla preparazione dei piatti, sembrano meno propense a parlare in italiano. «Noi non abbiamo scuole, quello che scriviamo è sulla sabbia e il giorno dopo già non c’è più. Siamo via per mesi e quando torniamo stiamo già pensando a ripartire. La donna è fondamentale, è lei che ha il controllo della tenda, che gestisce tutto. Per questo dicono che nei paesi tuareg comandano le donne. Questo ce lo siamo portati anche qui».

Mentre racconta, noto che indossa una veste di un intenso azzurro, insieme al turbante che gli ho già visto addosso pochi giorni prima. Gli chiedo se sia quello il colore del popolo blu: «Sì. Perché poi rimane sulla pelle e allora ci chiamano popolo blu» sintetizza.

L’ampio salone della parrocchia è stato riempito di tavoli con tovaglie arancioni e bianche e panche e ornato a festa: al centro di quattro arazzi colorati, una grande fotografia del deserto sovrasta la carta politica dell’Africa del nord. Nella stampa la terra è stata lasciata bianca, increspata da alcuni rilievi montuosi colorati di nero e attraversata da alcune esili linee azzurre. Al centro, una figura gialla a forma di pesce indica le terre abitate dai tuareg: ricopre una piccola porzione fisica di tutti i paesi che la circondano, ma non coincide con nessuno dei confini segnati in rosa. Sul palcoscenico, una sella per dromedario. In alcuni cestoni di vimini, aspettano scintillanti alcune piccole sorprese impacchettate. È una sala che potrebbe ospitare indifferentemente una festa, una funzione religiosa o un saggio di danza.

Appena fuori dal salone, tre ragazzini giocano a basket nel campetto dell’oratorio, poi si fermano e iniziano a parlare degli esami di maturità. Si chiedono quale sarebbe la risposta corretta se qualcuno chiedesse loro cos’è la Costituzione. In un angolo siede Ibrahim, un signore di mezza età, che mi viene presentato come lo scrittore del gruppo. Sta ripassando da alcuni fogli le letture che ha preparato per questa sera, gli occhiali appoggiati sulla punta del naso. Sul retro del fascicolo la pagina è stata lasciata vuota e spicca solo un proverbio, evidenziato in giallo e stampato con un carattere leggermente più grande: Ciò che il deserto vuole è del deserto.

«Nel deserto non ci sono mica strade, solo direzioni».

Gli chiedo se ci sia stato spesso, per un attimo vedo nei suoi occhi un lampo sbigottito e insieme ironico. «È come se io ti chiedessi se sei mai stata al mare».
Inizia a raccontarmi la varietà di paesaggi del deserto: la distesa piatta, il deserto a dune, il deserto roccioso. “Il deserto negli occhi”, come titola il suo libro biografico, dall’infanzia al lavoro per venticinque anni come guida turistica nelle terre tuareg in Africa, dopo essere stato costretto alla fuga nel 2007 con l’accusa di aver appoggiato la rivolta tuareg contro lo sfruttamento dell’uranio e aver ottenuto lo status di rifugiato politico.
«Ma i ricchi rompono le scatole nel deserto. Personalità incredibili di Milano che chiedono tavola e panche per mangiare. E ti fanno le stesse domande ogni giorno: Lì è una capra? Sì, è una capra. Dopo cento metri, quella lì è una capra? Sì, quella è bianca, questa è nera».

Scoppiamo tutti a ridere. Moussa entra nel salone per dirci che sta andando a recuperare Aziz, un musicista tuareg bolognese che questa sera si esibirà durante la festa. Chiedo a Ibrahim se gli sia mai successo di perdersi nel deserto: «È capitato. Nel deserto non ci sono mica strade, solo direzioni. Ti perdi quando stai andando e hai nella testa qualcos’altro – si porta due dita alla tempia – quando sei distratto. Ma sei, massimo dieci chilometri, nulla di grave. Però non hai assistenza. Il deserto ti insegna ad affidarti a te stesso e questo è ciò che poi ti porti dentro di più. Chi ama il deserto ne vorrebbe sempre di più».

Mentre sto tornando a casa, ripenso alle parole di uno dei maggiori poeti contemporanei tuareg, Mahmoudan Hawad:

Quando il mio corpo cadrà sfinito
seppellitelo laggiù, sotto la duna
il midollo farà da humus.
La mia anima partirà gridando come un cammello
verso gli oceani
di cui nessuno custodisce gli accessi
.

Viaggio al termine della torre

«Dove ci porti?»
«Voglio farvi una sorpresa».
La luce gialla comincia ad alzarsi, e con lei i nostri menti. Numeri diversi si illuminano ogni due secondi, uno alla volta. Due secondi, il tempo che scorre passando da un piano all’altro. 3, 5, 10, 12, 15. Il 18 prende luce. La porta dell’ascensore scorre facendo uscire noi e l’odore dolciastro di umanità che contiene. Da quassù il cortile è ampio come il palmo di una mano, e sembra che gli alberi abbiano perso la propria spinta verticale.

Saber estrae dalla tasca un mazzo di chiavi, piccolo rispetto alla sua altezza e alla vastità di porte che può aprire. La porta di sicurezza arancione oppone una prima resistenza, ma Saber è uomo che non ha fretta. Ecco finalmente la luce del sole, e la grande terrazza.
«Ho pensato che sarebbe stato bello farvi vedere Brescia da qua. Ogni tanto salgo per stare tranquillo, per pensare, si sta bene. Spero vi piaccia».

Saber estrae dalla tasca un mazzo di chiavi, piccolo rispetto alla sua altezza e alla vastità di porte che può aprire.

Saber è nato a Tunisi, ha 47 anni, e da meno di uno lavora come portinaio alla torre Cimabue, nel quartiere San Polo Nuovo, Brescia. A chiamarlo è stato Jamel, presidente del Centro Culturale Islamico della città, che aveva bisogno di un sostituto per un mese. Una persona di fiducia. Scaduto il periodo gli inquilini hanno chiesto che rimanesse, e così è stato. Qui alla torre sono in cinque a fare i portinai, di cui uno ciclicamente al turno di riposo; ogni turno dura cinque ore, e insieme coprono la fascia oraria dalle 5 del mattino all’1.30 di notte.

La sua parlata è lenta e morbida, e riflette la sua pacatezza d’animo. Le mani danzano in movimenti accoglienti, e quando si allontanano dal suo torace indicano il panorama che ci circonda. Da qui si vede tutto: la città e le sue Prealpi, le cave, l’autostrada, le industrie, l’acciaieria, il campo rom; la metro, le villette a schiera di San Polo, i suoi parchi, le torri Tiziano, Michelangelo e Raffaello più in giù.
La torre Tintoretto invece svetta di fronte a noi in modo egocentrico, diversa dalla Cimabue per le strisce colorate che nel suo caso sono orizzontali con i toni dell’arcobaleno, e per essere completamente disabitata. Per il resto, due torri di case popolari con nessun balcone, un ingresso, due ascensori, diciotto piani e 196 appartamenti.

San Polo è il quartiere più popoloso di Brescia con quasi 20.000 abitanti. Si trova a sud-est della città, e in sé racchiude San Polo nuovo, zona di urbanizzazione pubblica e parte di quel laboratorio sperimentale di urbanistica attuato dall’architetto Leonardo Benevolo, ispirato dalle tecniche europee in voga nei primi anni Settanta. Il disegno era semplice: un quartiere di villette a schiera di edilizia agevolata, ordinate, circondate da parchi, sovrastate dalle due torri esplose dalla terra, dal nulla. “Un’anomalia” la chiamano qui.

Inizialmente il comune assegnò gli appartamenti a moltissime famiglie della città; in seguito, a immigrati. Cinque anni fa la torre Tintoretto è stata svuotata e i suoi abitanti spostati al quartiere Sanpolino, in vista del prossimo abbattimento. Ora la torre è ancora qui – gigantesca, maledetta, stinta – nel suo limbo apparente, almeno fino a quando non verrà aperto il prossimo bando che deciderà la sua rinascita o la fine definitiva. Nel frattempo rimane tema utile politicamente, come simbolo di disfatta delle precedenti amministrazioni o punto programmatico di campagne elettorali.

La mano di Saber smette di indicare e arriva alla nuca, mentre la schiena si poggia al parapetto. «Ho conosciuto Brescia vent’anni fa. Dopo un po’ sono venuto a sapere che quelli che erano nel Carmine e da altri quartieri con dei problemi sociali, beh, la maggioranza di loro sono stati portati qua nelle torri. Perché proprio qua? Perché unire…».
Di slancio si abbassa, e con un dito delinea sul pavimento i contorni di una mappa che di tratto in tratto avanza dal suo stato invisibile.

«Ti racconto una cosa della Tunisia. Qua c’è la costa marittima – il dito si muove verso nord est – qua trovi i paesi e le città con imprenditoria, persone benestanti – rientra a sinistra – poi una serie di alberghi, i quartieri dei poliziotti e dei militari. Poi qua – ancora più a sinistra, iniziando a scendere – c’è il cuore del potere dove ci sono strutture pubbliche e industriali, poi il vuoto perché costa tanto, vanno solo certe persone. Poi qua – ancora un poco più giù – c’è una cintura, ci sono tutti i quartieri poveri. Questi la mattina si svegliano alle 5 e vedi una specie di invasione verso queste zone qua – risale verso destra – verso le aree industriali. Allora vedi, è una cintura di povertà fatta per proteggere in realtà tutto quello che è il cuore del potere. Capisci, io credo che qua sia una cosa simile, un esperimento sociale. Ed è stato un problema, un grosso problema, la miccia che ha fatto finire in questo modo le due torri. Dicono che buttano giù la Tintoretto ma non la buttano giù, perché dovrebbero farlo scusa, è a posto! E perché questa Cimabue no, visto che sono identiche? Sono in questa torre da solo un anno ma ho tante domande».

Una delle risposte sembra risiedere nella proprietà delle torri: la Tintoretto è nelle mani dell’ALER (Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziaria), mentre la Cimabue del Comune. E di nuovo, affari politici, arresti, giochi di tangenti.
«La gente ha paura di queste torri, se ne dice di ogni, e potrei raccontare tanto anche io. Ma bisogna sempre toccare, conoscere, vivere la gente che ci abita. Adesso si parla del touch, il touch è così, se non tocchi cosa è? Seguitemi, iniziamo la nostra discesa».

«La gente ha paura di queste torri, se ne dice di ogni, e potrei raccontare tanto anche io. Ma bisogna sempre toccare, conoscere, vivere la gente che ci abita. Adesso si parla del touch, il touch è così, se non tocchi cosa è?».

Dagli oblò entra molta luce, e il caldo – nonostante sia piena estate – non si sente troppo. Sui muri scritte in italiano, arabo, in francese elementare, rimandano ad amori appena nati o terminati; il tratto dell’indelebile, lo scorrere del tempo.

Je mourai por toi/autant 2 fois/qui sera necessaire/tu n’aura qu’as dire et je le farais.

Gli appartamenti iniziano al 16° piano; il 17° è per le cantine, e il 18° il balcone. All’ingresso di ogni pianerottolo una targa indica il numero di piano per non smarrirsi in questa verticalità del tutto identica: sedici livelli uguali a sé stessi, dodici appartamenti ciascuno, un corridoio a piastrelle bianche, piuttosto largo, porte grigie dalle quali provengono voci, rumori di passi, di tv e del vivere quotidiano. Qualcuno lascia la porta aperta, con il solo cancelletto basso per bambini a dividere l’ingresso dal corridoio.

«Sei qui con la tua famiglia?»
Saber tentenna, e apre con un “mmm”.
«Sono separato. Adesso sono solo qua, ma la famiglia c’è, ci sono anche i figli, però non viviamo insieme. Hanno 20 anni, poi 4 e 6. Sai, non faccio solo il portinaio. In Tunisia faccio il giornalista, lo faccio anche qui, scrivo di notizie d’interesse geopolitico, è anche per questo che mi faccio domande. Ultimamente mi sto interessando di storie di immigrati di provenienza araba. Però ho studiato geologia spaziale, una cosa del genere. È stupido, lo so!» dice scoppiando in una grossa risata.

La placca indica il numero quindici. Una nuova porta antincendio si apre sotto la spinta di Saber, che ci anticipa accogliendoci come un maître di sala, e ci introduce a Souad. Qui il nome di tutti è seguito dal piano di appartenenza; così si è presentata Souad, e così l’amica: «Baria, nono».

Entrambe frequentano il corso di sartoria tenuto nella Casa delle Associazioni al piano terra, accanto alla ludoteca; è stato avviato per fare uscire di casa le donne arabe, dopo aver notato che il loro compito si limitava alla cura di casa e famiglia. Souad è marocchina ed è in questa torre da sei anni, con marito e tre figli; Baria tunisina, in Italia dal 2005, anche lei ha seguito il marito fin qui dopo quasi vent’anni dalla partenza. Entrambe parlano un buon italiano, imparato sempre grazie ad un corso; l’hanno studiato per trovare lavoro, anche se ammettono che tra loro ogni tanto «scappa l’arabo».

«All’inizio non volevo venire a San Polo, avevo sentito parlare male del posto, ma ho voluto vedere, poi mi è piaciuto». A parlare è Baria, il volto circondato dal velo verde e nero, schiarito dalla veste floreale. «Il quartiere è bellissimo, ci sono i parchi, la metro, la scuola materna. L’unica cosa è che la casa è piccola, prima non avevo figli. Per questo non so se starò sempre qua. Al massimo ritornerò in Tunisia. Poi, per quello che si dice della torre, personalmente non ho niente problema. Esco di casa per lavorare, porto i bambini a scuola. Non ho problemi perché non vedo. Entro alle sei del pomeriggio perché sono stanca devo occuparmi del bambino, casa, compiti, non sento non vedo nessun problema. Rapporto con vicini benissimo, mio vicino non lo vedo, quindi. Non sento e non vedo – ripete – vivo la mia vita, non vedo».

«Anche per me all’inizio è stato difficile, perché abitavo vicino agli Spedali Civili», aggiunge Souad. «Ma qui c’erano problemi anche quando non c’erano gli stranieri».
Insieme parlano di episodi di vita comune in torre, dall’incontrarsi a lezione e di quella nuova famiglia che si è creata tra loro. I parenti veri li sentono via Skype, e sono contente così.
«Sì, di positivo è l’aver trovato amiche. Di negativo lo sporco, non so. Qui ci sono persone che non vogliono portare da basso la spazzatura, quindi la lanciano dalle finestre e una volta per poco non sono stata colpita da una bottiglia di vetro».
Baria annuisce.
«Pensa, l’altro giorno ero sul portone di casa, avevo poggiato la pattumiera poco lontano e sono tornata a chiudere a chiave. Sono tornata a prenderla e non c’era più, l’avevano lanciata giù. Questo è brutto, sì». Scale seguono scale, più si scende e più i piani si fanno più bui. Nei pianerottoli dei carrelli della spesa sono parcheggiati a ridosso del muro. Anche il fresco aumenta, così il viavai di gente e il rimbombo dei rumori.

«Gli inquilini si confidano tanto con me», dice Saber. «Mi era successa una cosa, non so se bella in realtà». Parla di una famiglia con un figlio bipolare e il padre assente. Quando ha il turno di notte il ragazzo raggiunge Saber in portineria, così non rischia di uscire con i coetanei e ubriacarsi: l’alcool altererebbe le funzioni dei suoi medicinali, causandogli crisi epilettiche. Una notte la madre s’era scordata che il portinaio era di riposo, ed ha lasciato uscire il figlio; il caos, la telefonata e il “devi venire subito” nel mezzo della notte.

«Alla fine cosa sono, non un portinaio, sono semplicemente una persona. Le ho chiesto perché ha chiamato me. Mi ha risposto perché il figlio si fidava solo di me. Questo è un’altra busta paga, basta. E lì dici ok, non prendo molto perché sono in una cooperativa sociale, ci sono lavori in cui posso venire pagato molto di più, ma almeno ho tempo di vivere, parlare, e c’è spazio per queste cose. Succedono».

I numeri indietreggiano. S’apre il sesto piano.
«Vi porto da una signora di 95 anni, bresciana. Speriamo di trovarla nella giornata giusta».
Svoltiamo a sinistra e percorriamo quella metà di corridoio in tutta la sua lunghezza. Nello spazio di quei metri scruto il pavimento alla ricerca di sporco, ma non ne trovo: «è martedì», mi interrompe Saber quasi capisse la mia intenzione, «quelli delle pulizie mandati dal comune sono passati ieri. Vieni tra due giorni, e non lo senti più questo odore di sapone».
L’edificio è asettico, freddo, ospedale senz’anima apparente: porte antincendio, maniglie a spinta, muri neutri, nessuna decorazione. Un’opera architettonica che affascina gli amanti del minimal, delle linee.

La porta è di fronte. Al campanello risponde un «Chi sif?» che anticipa Domenica e il suo deambulatore, il suo “compagno”. L’appartamento occupa il lato della torre che ne forma la sua larghezza, il suo fianco. Un rettangolo che per estremità ha due stanze da letto e il bagno, al centro la cucina, la finestra/oblò e il grande salone. L’arredamento dev’essere quello che ha portato qui ventitré anni fa, nel giorno della festa della donna, quando si è trasferita con la famiglia. In un angolo del salone la tv, di fronte la poltrona reclinabile adorata da Domenica, soprattutto mentre guarda film serali o ascolta il rosario alla Madonna di Lourdes, che dice essere uno spettacolo. L’italiano non lo parla, il bresciano è la sua lingua madre.

«Prima roba vi dico: sono ignorante, vecchia, ma leggo sempre il giornale, anche se lo chiamano “bugiardino”. Ho cominciato a 12 anni a lavorare, ho finito pochi anni fa di cucire a macchina perché la famiglia ha bisogno. A 95 anni ho la soddisfazione di non aver mai chiesto un prestito! Se avevo i soldi mangiavo, altrimenti mangiavo la minestra senza burro!».

Termina le frasi alzando il mento, con il fare di chi, in questo modo, riesce ad ottenere ragione. Mostra la fede che ha sul dito, “la era”, ricavata da 50 centesimi di lire dati al fabbro; non voleva iniziare una famiglia con i debiti per un anello. Sul muro un articolo di giornale celebra i cent’anni di sua madre; una targa invece “la nonna migliore del mondo”.

Domenica è una donna ferma nei suoi valori: risparmio, religione, lavoro. Oggi Saber non le ha portato il giornale, e la innervosisce. Racconta di aver avuto tre figli, uno morì a 18 anni a causa di un cortocircuito di una macchina su cui stava lavorando. Aveva trovato il lavoro in due giorni, appena uscito da scuola, e per questo gli avrebbero comperato un fucile per andare a caccia. «Dopo quindici giorni è morto. Pace. Ho guardato il mio Severino sul tavolo, l’ho ammirato e toccato, bravo com’era. Poi ho detto Signore, me l’hai dato e me l’hai tolto, tu sai il motivo, basta». Il caffè è pronto, e al ritorno dalla cucina l’argomento è cambiato, svoltato, come la morte stessa.

«A me piace vivere qui, sai? Voglio bene a tutti, e loro altrettanto: neri, bianchi, vecchi, bambini, mi chiamano nonna, sono dei gioielli. Prima quando riuscivo a camminare senza problemi facevo le punture a tutti, bisogna fare del bene nella vita. Una volta un signore giù in cortile mi ha chiesto se avessi intenzione di volere bene a tutti, anche ai neri – vedeva che mi dicevano ciao nonna. Diceva che lui li avrebbe bruciati tutti insieme ai vecchi. Non c’ho più visto. Io rispondo, sempre con rispetto ma rispondo sempre, e gli ho ricordato quel detto “scarpa grossa cervello fine”, e le sue scarpe erano belle, marroni e di pelle. È preso e se n’è andato. Ma cara te, ho la carogna addosso!».

I giornali locali scrivono di una situazione di altissimo degrado in torre, dai problemi personali, di convivenza, alla sporcizia esterna alla droga e prostituzione. In Casa delle Associazioni dicono che si tratta solo di spaccio “fisiologico”, e che questo non è un grosso problema; il disagio è dato dalla fermata della metro vicina, luogo di ritrovo dei ragazzi della zona che facendo tardi recano fastidio alle villette, dove risiede la maggioranza degli associati. Un contrasto evidente, paradossale, più o meno colpevole, più o meno conveniente.

«Per me c’è un’energia che tiene unito ‘sto posto».

«Da portinaio ne ho viste di cose sconvolgenti. Ma non voglio raccontarti di chi becco a farsi le pere, nemmeno del viavai di uomini, bisogna anche andare oltre. Per me c’è un’energia che tiene unito ‘sto posto. Io credo sia questo il segreto. Ho vissuto a Milano per due anni e non ho mai conosciuto nessuno dei miei vicini, capisci? La comunità. Bisogna conoscere le persone, entrare nelle case, scoprirle, non guardare e aiutare solo dall’esterno. Una notte ho guardato tutti i cognomi dei campanelli e ho fatto delle ricerche. Pensa, ci sono quarantacinque lingue diverse qua. Dall’Africa ci sono venti nazioni minimo, Senegal, Congo, Ghana, Tunisia, Egitto, Marocco… capisci? Dall’Europa Germania, Kosovo, Macedonia; e poi serbi, bosniaci, albanesi, russi, brasiliani, argentini, peruviani. Un mondo. Questo produce energia. Tra un’ora e mezza se vai ai piani inizi a sentire gli aromi, capisci la vita di cosa è fatta: aromi, colori. C’è un detto arabo che fa parla con ogni uomo, con la sua lingua. Secondo me lì consiste il segreto, ognuno viaggia sull’onda. Sali!».

«C’è un detto arabo che fa parla con ogni uomo, con la sua lingua. Secondo me lì consiste il segreto, ognuno viaggia sull’onda. Sali!».

Burkano è del secondo, lo incontriamo mentre sta trasportando la sua bicicletta a mano, su dalle rampe. Ha 14 anni, è serbo, ma vive nella torre da quando ha 3 anni. La nonna vive con la sua famiglia, tre fratelli e due sorelle, mentre lo zio in un altro appartamento della Cimabue. Racconta che era bello giocare a panchine in giardino, o a calcio con tutti gli altri ragazzini, ma anche che di sera i senzatetto dormono qui fuori e aprono i rifiuti lanciati dalle finestre. Per questo i bambini ora hanno paura di scendere a giocare.

Mentre parliamo un gruppo di ragazzi rientra da una gita in piscina organizzata dalla ludoteca. Burkano si vanta, scuote i suoi capelli castani e lancia vive occhiate. «Mi chiamano perché sono qui con voi, mi riempiranno di domande. Qui in realtà ci sono più vecchi che ragazzi, ma la gente mi piace, mi trovo d’accordo. È solo che alcuni sono un po’ matti. Una volta un tipo ha lanciato una bicicletta dall’undicesimo, io l’ho schivata per poco, sono scappato. Lo sai che non vanno nemmeno le telecamere? Sono negli alberi, dicono che sono controllate dalla polizia ma non è vero nulla».

Ci racconta poi di quello che vorrebbe fare da grande, il bodyguard, anche se ammette di dover lavorare molto a livello muscolare. Per il momento pensa alla scuola. «Ora vado a baita», e riprende la sua risalita verso casa, la “baita” in bresciano, mentre noi continuiamo verso la fine.

Al piano terra le piastrelle assumono toni diversi di grigio creando un’enorme scacchiera; le pareti sono tinte d’azzurre tagliate da grandi finestre a forma di mezzo cuore, un modo più eclettico per donare un po’ di luce in questo fine corsa così buio. Le caselle postali si susseguono, si rincorrono dentro e fuori dall’edificio; uno specchio stradale è appeso di fronte alla postazione di Saber, in modo da poter vedere chi entra e chi esce senza per forza scomodarsi.

Prima di chiudere l’ultima porta – quella che divide il suo mondo da quello degli abitanti della torre – ci parla di un documentario che ha in mente di fare, nella speranza di poter essere d’aiuto a chi intende trasferirsi in Italia; poi riprende posto nella sua scrivania come farebbe un giornalista, circondato da faldoni, carte, post-it, serrato in un quadrato di vetro, dietro gli schermi di vigilanza.

Casa signorile in condivisione con G. Rossini

Ad indicare che il caffè è pronto non è il borbottare della moka o della cuccumella, ma il lampeggio di un led: il caffè in capsule ha fatto il suo ingresso anche in una casa del genere. Si tratta di una notevole costruzione seicentesca che guarda il golfo di Napoli dalla collina del Vomero, ed è la prima fondamentale protagonista di questa storia.
Prima ancora che la Nespresso abbia terminato le sue commissioni mi viene portato un bicchiere d’acqua. «Va bene frizzante?», mi chiede Sergio Ragni, svestendo per un attimo la carica autorevole per cui sono venuto a intervistarlo. Lui, di questa storia, è il secondo eminente protagonista.«Ti faccio vedere una cosa», aggiunge poi.
Da una vetrinetta tira fuori una tazza di fine Ottocento in porcellana di Meissen. Sulla superficie il ceramista dell’epoca ha raffigurato un profilo diventato ormai iconico. È quello di Gioachino Rossini; l’ultimo, e al contempo il principale protagonista di questa faccenda.

Villa Belvedere

Se fino alle porte di Villa Belvedere ero accompagnato da forte curiosità, salendo i gradoni in pietra che conducono ai piani alti questa ha fatto spazio a un senso di inadeguatezza. Infine, varcato l’uscio, è prevalsa la meraviglia. Sergio Ragni vive in una casa museo.
Dire che ospita in casa cimeli rossiniani sarebbe riduttivo: entrando nel suo appartamento pare che sia Rossini a dargli un posto dove dormire. «Finirà per buttarmi fuori di casa», commenta spesso.
Sergio mi accoglie con cordiale vivacità, stringendomi la mano, indicandomi un divano dove poter poggiare le mie cose, e iniziando subito a parlare con trasporto della sua collezione. La prima parte dell’intervista la faccio indossando ancora il giubbotto: non ho avuto tempo di liberarmene, e però non voglio perdere una sola parola del collezionista.

Dall’ampia sala d’ingresso lo seguo per il corridoio, su cui affaccia anche la camera da letto. Finiremo nel vasto salone con vista sul mare, ma ci arriveremo poco per volta: per ogni centimetro c’è un pezzo della collezione, quindi un pezzo di storia.

Ogni angolo del suo appartamento è occupato da busti d’epoca del celebrato compositore pesarese; ogni bianca parete è invasa da una sua litografia, da un suo dipinto. Di fotografie di Sergio non ne vedo; ci sono pochissimi elementi a testimonianza che in questa casa ci abiti lui e non Rossini: la Nespresso, dicevo, o un misurato televisore che adopera la sera per guardare il tg. Persino il telefono accanto al letto è semi trasparente, quasi a voler limitare al massimo l’ingerenza contemporanea in una casa il cui vero padrone pare vivere nell’Ottocento.
Lì noto una sedia dove Rossini sedette, qui le statuine caricaturali del compositore, là una scatoletta che contiene i suoi occhiali da presbite, i suoi occhiali da sole, il bocchino per il sigaro, il portamine e addirittura un ciuffo dei suoi capelli. Di ogni cimelio Sergio conosce vita morte e miracoli; sa quando è stato prodotto e in quale occasione, con che materiale e soprattutto da chi: «Li conosco bene, so le vicende di ognuno, questi che vedo alle pareti li considero parenti. Mi affascina molto la storia legata a ogni pezzo di questa casa», mi dice.
Mi spiega ad esempio che la tazza, quella in ceramica di Meissen nella vetrinetta, fu regalata a Rossini da un mercante di vino che si sentì gratificato dal fatto che questo nume disceso sulla terra, fra l’altro grande buongustaio, avesse elogiato i suoi vini.

«Io ho dato tutto il mio spazio a lui. La mia cucina è un buco. Se voglio ospitare qualcheduno devo aprire un divano letto perché non ho spazio per una stanza degli ospiti»

Mi correggo: per ogni elemento non c’è una sola storia, ma almeno due: quella dell’epoca rossiniana e quella altrettanto fascinosa di come Sergio sia riuscito ad ottenerlo. La scatoletta contenente gli occhiali, il bocchino e i capelli del compositore, per dire, fu battuta all’asta da Sotheby’s. «C’era a Londra una mia corrispondente, una grande antiquaria che mi fece offrire una cifra che riteneva consona a vincere il lotto. E invece fui poi superato», mi racconta, e il ricordo pare angosciarlo ancora. «Io ero disperato, dove l’andavo a trovare più una cosa del genere? Mi misi alla ricerca dell’acquirente. Tanto feci che riuscii a individuarlo e a fare mia la scatoletta».

Approfitto della pausa caffè per spogliarmi del giubbotto. Lui beve all’impiedi, e per tutto il tempo dell’intervista non siederà mai.
«Il mondo dell’opera è un mondo di chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere», mi dice. «I veri appassionati d’opera sono dei pettegoli, e io stesso conosco tutti i retroscena dei vari cantanti». L’atmosfera è rilassata, e allora mi faccio prendere anch’io da una curiosità un po’ impicciona: Ci sono collezionisti rossiniani che hanno un assortimento di cimeli più grande del tuo?, gli domando. Sergio non è tipo da offendersi per queste cose. Pur continuando a definirsi vecchio, ha una giovinezza che esplode costantemente dagli allegri occhi a mandorla e dalla sua ironia partenopea. Sorride giocoso, sfregandosi le mani mi risponde «Me li fumo tutti quanti!».

In un disimpegno, piazzato su un piedistallo, scopro un paio di scarpe della Callas, altro mito di Sergio. «Io con la Callas mi trovo sfasato. Ha riportato un po’ di modernità in un periodo in cui l’opera era invecchiata». Sergio mi spiega che ha avuto pochi e ben definiti idoli in musica, sin da quando, giovanissimo, si accucciava sotto le gambe della madre ascoltandola suonare al pianoforte Liszt e Chopin. Quegli idoli se li porta dietro ancora oggi e, oltre alla Callas, mi dice di essere stato «un fanatico ammiratore di Mina»: la cantante andava spesso a Ischia, dove la famiglia Ragni passava i giorni di villeggiatura. Ci fu un’estate in cui Sergio venne a sapere che, dopo un concerto su quell’isola, Mina ne doveva tenere uno a Capri. «Persi la testa. Presi anch’io lo stesso aliscafo e feci questo viaggio inutile per stare vicino a lei. Che potevo fare?».

Ma sopra tutti i miti che si porta dietro dalla gioventù svetta Rossini, e la sua vita è stata finora una sorta di enorme tributo alla grandezza del compositore, con tutto quel che comporta in termini di praticità.

«Rossini è una presenza ingombrante in questa casa», ironizza. «Io ho dato tutto il mio spazio a lui. La mia cucina è un buco. In una casa così grande, se voglio ospitare qualcheduno devo aprire un divano letto perché non ho spazio per una stanza degli ospiti. Ogni tanto faccio un repulisti per gettare via le mie cose superflue. Ho dovuto allungare la mia libreria in altezza per non occupare più spazio del necessario: ho uno scaletto altissimo!». L’unica stanza “borghese”, come la definisce, è grande meno di dieci metri quadri. All’interno campeggia un guardaroba di legno, un moderno divano letto e delle scaffalature piene di suoi cd – gran parte dei quali di musica classica. Il salone è ormai una sala d’esposizione. Il corridoio una galleria di ritratti. Il mobilio della stanza da letto è stato interamente recuperato dalla villa di Castenaso appartenuta a Isabella Colbran, celeberrima prima donna spagnola e prima moglie di Rossini: Ragni dorme nel letto in cui ella morì.

«Ho avuto la fortuna di abitare in Villa Belvedere da quando avevo quaranta giorni. Prima di vivere qui, ero in un altro appartamento di questo immobile con i miei genitori. Era ancora più grande di questo, ma ad abitarlo eravamo in tanti. C’era una camera da letto per i figli maschi e una per le femmine. Eravamo tre e tre, e io non vedevo l’ora che i miei due fratelli più grandi andassero ad abitare fuori per acquistare un po’ di spazio tutto mio. Quando questo finalmente avvenne, diedi un nuovo assetto alla mia camera trasformandola completamente con i primissimi reperti rossiniani che possedevo. In una casa monumentale come quella, la mia stanza dava già un impatto più da esposizione. Fu il principio della mia collezione su Rossini».

Gioachino Rossini

Rossini non ha mai abitato qui. Eppure il collezionista è convinto che ai suoi tempi ci sia venuto in visita. Se il nome della Villa Belvedere è spesso associato all’incantevole panorama su cui si affaccia, esso si deve in realtà dagli antichi proprietari, la famiglia Carafa di Belvedere. Nell’Ottocento usavano aprire, una volta a settimana, le porte dei giardini per permettere ai visitatori – quelli dei ceti privilegiati, s’intende – di godere della vista sul mare e dei profumi del boschetto. «Era un luogo obbligato per chiunque si trovasse a Napoli, Rossini pure deve esserci passato».

Rossini arrivò nella capitale borbonica che aveva appena 23 anni, mal visto dai grandi maestri napoletani che sopportavano poco le sperimentazioni. Non gradivano la sua musica fracassona, e sapere che gli era stata affidata la direzione musicale dei due regi teatri napoletani, fra cui il maestoso San Carlo, fu un boccone abbastanza indigesto. Napoli allora era una sorta di Hollywood nel suo periodo d’oro, l’opera lo spettacolo per eccellenza, e la scuola musicale napoletana il riferimento europeo, e quindi mondiale.

Al di là della musica, Rossini andrebbe apprezzato per le enormi capacità di self-marketing: fosse vivo oggi, potrebbe tenere workshop a tutta la generazione a partita iva

Eppure l’impresario Barbaja aveva scelto Rossini. E Barbaja non era uno sprovveduto: nato nella bassa milanese aveva lavorato alla Scala per poi capire che per fare i veri soldi nel mondo dell’opera bisognava spostarsi a Napoli. Lì investì tempo ed energie nel cercare i musicisti migliori. Sentì parlare di Rossini: un genio precoce che iniziò a cantare e a dirigere ancora bambino, un forestiero, un provocatore che nello spartito del Signor Bruschino indica ai violinisti di battere a tempo gli archetti sui leggii. Si dice che il direttore del conservatorio di Napoli vietò ai suoi studenti di leggere la sua musica. Barbaja, invece, montò in carrozza ed andò di persona a cercarlo a Firenze – il che all’epoca significava all’estero – per affidargli l’incarico napoletano.

Nonostante la fredda accoglienza, il giovane compositore non si perse d’animo: si preoccupò invece di far arrivare le sue composizioni alle orecchie giuste, portandole anche fuori dai teatri e facendole entrare nei salotti buoni della città. La strategia di autopromozione funzionò, e Rossini perseverò ad attuarla per buona parte della sua carriera, specie durante gli anni di sodalizio con la Colbran: con lei stilò un vero e proprio listino prezzi per gli eventi privati.
Aveva buon occhio per gli affari. Quando arrivò a Napoli fu il primo compositore a chiedere come compenso, oltre a dei fissi, una percentuale sui giochi d’azzardo – all’epoca i maggiori teatri d’opera avevano dei ridotti dedicati a questa funzione. Insomma al di là della musica, Rossini andrebbe apprezzato per le enormi capacità di self-marketing: fosse vivo oggi, potrebbe tenere workshop a tutta la generazione a partita iva di cui faccio parte.

Divenne presto ricco, e in sette anni passò dall’avere nomea di Signor Baccano all’essere un idolo celebrato da tutti, con donne adoranti che volevano un brandello del suo mantello o che urlavano il suo nome. Trattava coi regnanti da pari, prima con quello di Napoli poi con quello di Francia: dopo lunghe trattative arrivò a convincere quest’ultimo ad elargirgli una sorta di pensione a vita in cambio dell’opera Guillaume Tell e di quanto egli aveva fatto per la scena musicale francese.

L’ossessione di Ragni per “il più gran genio musicale del mondo” iniziò quando era ancora ragazzino.

Tutti lo adoravano e fra i suoi ammiratori v’erano personalità parecchio influenti: nobili, banchieri, e il generale Metternich che, dopo il periodo napoletano, lo volle in tournée in Austria. Le opere di Rossini furono fra le prime ad essere rappresentate nel nuovo continente: Rossini era un segnale di raggiunta civiltà.
Giravano dappertutto le sue litografie, le immagini, le caricature: il pubblico desiderava vedere il viso del gran Rossini e possederne sue rappresentazioni, così i ritrattisti – che spesso l’avevano visto solo in litografie, immagini, caricature – assecondavano la richiesta immaginandoselo. Ancora oggi coesistono, anche nella casa museo di Sergio Ragni, ritratti di Rossini diversissimi l’uno dall’altro: a meno di non aver avuto la possibilità di vederlo dal vivo, bisognava affidarsi all’intuito del disegnatore. Questo fino a che a Parigi non arrivò l’arte della fotografia: se prima dicevo che in casa Ragni non vedo fotografie di Sergio, ce ne sono invece svariate scattate all’ormai anziano Rossini. Infine varie erano le biografie a lui dedicate, fra le quali spicca Vie de Rossini di Stendhal: libro che Ragni ritiene irrinunciabile anche se impregnato di aneddotica romanzata.

Non solo i ritratti, i busti, le biografie affollano le case dei collezionisti, ma anche gli oggetti che ha toccato, indossato, prodotto Rossini sono feticci iconici. I suoi spartiti autografi, le lettere che mandava ai genitori o alle ammiratrici con cui si accordava per gli incontri notturni, i suoi disegni, i versi che metteva in musica – talvolta malinconici, talvolta goliardici – e che spediva agli amici. La quantità di materiale dedicato all’illustre compositore è così elevata che la collezione di Ragni – che pure si limita solo ai cimeli di un certo rilievo – è potenzialmente infinita.
Anche adesso che lo sto intervistando Sergio mi informa di essere in attesa di una miniatura dagli Stati Uniti. «C’è sempre lo stimolo a cercare qualcosa di nuovo», mi dice. «E questa è la mia salvezza, si può dire sia lo scopo che mi tiene in vita».

Sergio Ragni

L’ossessione di Ragni per “il più gran genio musicale del mondo” – come Rossini fu definito da Metternich – iniziò quando era ancora ragazzino. Rossini lo colpì subito per la sua energia fragorosa, proprio quella che inizialmente costò al compositore la diffidenza dei suoi contemporanei.

Inizialmente, avendo budget limitati, Sergio si limitava all’acquisto di libretti di opere e libri su Rossini per potersi aggiornare. Racconta però che un giorno, dall’antiquario Casella di piazza Municipio a Napoli, trovò un documento autografo del compositore. Era una lettera in cui il compositore raccomandava Camille Doucet all’amico banchiere Giuseppe Spada. Si concludeva con “Vostro apasionatissimo, G. Rossini”.
Se adesso è abituato ad entrare in possesso di qualcosa passato per le mani di Rossini, all’epoca non avrebbe mai pensato di poterlo fare. Aveva sedici anni, e non disponeva di parecchi soldi. Convinse allora sua madre a racimolare quelli che occorrevano per potersi accaparrare la lettera: si trattava di 350.000 lire (oggi, mi spiega, il confronto in euro è impossibile. «Devi pensare che adesso una lettera di Rossini costa da un minimo di 1500 euro in su»).

Quella lettera diede il vero avvio alla collezione. Iniziò a cercarne altre, poi altre ancora. Oggi è il curatore dell’edizione critica dell’epistolario rossiniano. Collabora con la Fondazione Gioachino Rossini di Pesaro, che da anni pubblica in ordine cronologico la corrispondenza del compositore trascritta e commentata da Ragni – cinque volumi sono stati già editi. «È un lavoro lunghissimo. Ogni giorno scopriamo nuove lettere che vengono alla luce. Il database del nostro epistolario necessita di continui aggiornamenti».

Ma le lettere sono solo una parte dei cimeli che affollano la sua casa museo. Se inizialmente la fonte primaria per la sua collezione erano mercati e negozi di antiquariato, oggi frequenta soprattutto aste, come quella d’interesse musicale che tiene un paio di volte l’anno la casa Sotheby’s. Ad alcune partecipa tramite incaricati; per altre, quelle dove gli sembra che ci possa essere qualcosa di particolarmente pregevole, decide di andare di persona. «Non ho mai fatto il conto di quanto ho speso per Rossini perché se no starei male», scherza.

Gli chiedo se qualche ospite in casa sua abbia mai rotto un pezzo della sua collezione. Ride, non riuscendo però a nascondere una certa apprensione. Mi dice che per fortuna nessuno ha mai rotto né rubato niente. È come se chiunque entrasse in questa casa, attanagliato dalla sacralità del posto, prestasse automaticamente un estremo riguardo nel non combinare guai.

Si potrebbe supporre che una casa così ferma nel tempo sia frequentata da fantasmi. Ma credo che la questione sia leggermente più sofisticata. Sarà forse la lieve presenza di ponderata modernità, la Nespresso o il telefono discreto accanto al letto, ma i numerosi oggetti d’epoca non mi danno la sensazione di essere posti in un luogo abitato da presenze spettrali venute dal passato, quanto da persone ancora in carne ed ossa – la Colbran, Stendhal, lo stesso Rossini – che accidentalmente, nel momento in cui sono venuto a intervistare Sergio, sono fuori casa per commissioni.
«Nonostante le scomodità dell’abitare in una casa museo, io ho sempre cercato di viverla», mi spiega d’altra parte Sergio. «Io sto bene nella mia casa. Ho bisogno di vedere i miei cimeli, non è solo un fatto visivo ma proprio affettivo».

«Io sono dei Gemelli e i Gemelli sono un segno duplice»

Dopo tutti questi anni Sergio è genuinamente affascinato da Rossini: parla addensando in poche frasi un’enorme quantità di preziose informazioni che faccio fatica ad appuntarmi.
«La mia vita è legata alla storia di questo posto, con tutti gli addentellati molte volte anche ridicoli», racconta. Mi parla di quando telefonò a una a una tutte le persone residenti a Bitonto che per cognome facevano Devanna, come il proprietario di un manufatto di cui Sergio voleva ardentemente entrare in possesso. Di quando fu fermato dalla polizia doganale italiana mentre tornava da un viaggio a Parigi e rimase col patema d’animo perché temeva controllassero nel bagagliaio: lì aveva piazzato alla buona un pesantissimo busto di marmo appena acquistato. «Ero terrorizzato che questi pensassero a chi sa quale spaccio, ma per fortuna andò tutto liscio».

Mi parla infine di quando, mentre teneva una conferenza a Pesaro durante il Festival Rossini, ha riconosciuto fra il pubblico un professore che possedeva una tabacchiera con l’effige della Colbran. «Dopo un’ora di conferenza questo si alza e se ne va. Mi dico Oddio! Come lo acchiappo più a questo?». Ragni batte le mani con trasporto, sottolineando teatralmente lo struggimento del momento. «Pur essendo l’unico conferenziere non mi peritai di alzarmi e di avvisare il pubblico che dovevo interrompere la conferenza». Al ricordo ha un accesso di un riso gioviale, fanciullesco. «Chiesi al moderatore di intrattenere un poco l’assemblea in mia assenza», continua. «Il pubblico dovette credere che necessitavo del bagno, ma io dovevo rincorrere questo personaggio». Alla fine l’affare si concluse, e ora la tabacchiera è nella vetrinetta accanto alla tazza in porcellana di Meissen.

Prima di salutarlo gli chiedo se gli è mai passato per la testa di abitare altrove.
Risponde: «Io sono dei Gemelli e i Gemelli sono un segno duplice. Questa mia casa mi obbliga a rispettare solo una parte della mia personalità. Forse ormai l’altra l’ho messa a tacere, ma nei vagheggiamenti, nelle fantasticherie che uno fa, mi piacerebbe una casa alternativa. Sono un grande appassionato di piante, una casa con un giardino mi avrebbe affascinato molto. Ma sono anche una persona concreta, a qualcosa bisogna rinunciare e io sono consapevole e felice che le cose siano andate così. E poi, se pure fosse, secondo te in una casa alternativa che faccio, un’immagine di Rossini da qualche parte non ce la metto lo stesso?».

Sergio Ragni è stato il protagonista del cortometraggio Caro Gioachino, diretto da Stefano Gargiulo e presentato alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia 2018.
Il corto, sceneggiato da Angelo Mozzillo (autore di questo reportage) e la cui principale location è la casa museo di Villa Belvedere, è stato prodotto da Kaos Produzioni per il Teatro San Carlo di Napoli in occasione dei 150 anni dalla morte di Rossini.